Commento al Vangelo – Natale del Signore 2015 C

stellamatutina-dolindo-ruotoloMessa della notte

Il momento della nascita di Gesù Cristo

Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere a Betlemme, e il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlemme.

Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere, dalla nascita di Gesù, tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.

Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell’impero e dell’obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l’uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l’uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, e un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.

La legge umana è inesorabile e non ammette scuse: bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all’obbedienza alla divina volontà, accettarono l’ordine non come un’imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, e intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlemme, loro città d’origine perché discendenti di Davide.

È commovente pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, perché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato in inverno. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.

Un asinello – com’è tradizione e com’è giusto pensare –, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell’amore e della pace. L’asinello doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall’angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefici e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria, tutta raccolta, pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l’Arca di Dio, perché portava nel grembo il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col suo sensibile cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.

Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell’asinello ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli… La natura sembrava un’immagine dell’uomo, intristito dalla colpa, e il Verbo divino, fatto per amore Pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlemme, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.

Giunsero a Betlemme dove, a motivo del censimento, vi era un gran concorso di gente sia negli alberghi pubblici, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, e lì procurò d’allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, perché erano ambedue immersi nella divina volontà, e amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava, con immensa pena e tenerezza, al suo Figlio che mancava di tutto, nel venire alla luce. S’intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l’ornamento fragrante di quella grotta desolata.

La nascita di Gesù

Venne la notte. Era algida ma serena, e brillavano gli astri nel cielo. Un silenzio grande circondava quel luogo, e una solennità più grande vi regnava, perché l’invisibile corte celeste già veniva in terra a corteggiare il Re divino, e rifulgeva nella sua placida luce spirituale, fatta tutta di conoscenza e di amore. Gli uomini e le cose dormivano, e lontano lontano si vedeva solo qualche bagliore dei fuochi dei pastori che vigilavano il gregge. Gli astri roteavano nel cielo, seguendo le leggi di ordine loro assegnato da Dio, e nel corpo immacolato di Maria si compivano con la stessa precisione le leggi della procreazione. Rutilavano le stelle e rutilava il Sole divino verso l’orizzonte della vita terrena, prossimo a spuntare come raggio attraverso il seno immacolato della Madre.

Il sole è preceduto dall’aurora ed è accompagnato dalla stella più fulgida della notte che sparisce nei suoi raggi. Ora, la bella aurora della nascita del Re d’Amore era Maria, nell’elevazione del suo amore, e la stella tremolante in adorazione era san Giuseppe. Maria era tutta un fulgore di contemplazione e di estasi. Bella nella sua innocenza purissima, circondata da un tenue nembo di luce che la delineava nella notte come placida luna nel firmamento, genuflessa, con le mani congiunte e lo sguardo al cielo, era l’immagine del seno del Padre, e rifletteva da sé qualche barlume dell’eterno mistero.

Contemplava.

Si trovava tra l’eternità senza tempo e i tempi carichi di secoli; mirava nell’eternità il Verbo, Termine dell’eterna generazione del Padre, e mirava nel tempo il percorso dei secoli delle promesse che terminavano in Lei con la generazione temporale del Verbo nella umana carne.

Era tutta avvolta dalla luce dell’eterna armonia, ed era tutta un’armonia d’amore. La grazia rigurgitava per così dire in Lei, tanta ne era l’abbondanza, ed Ella vi era immersa in un placidissimo riposo.

Contemplava il cielo, e un sorriso le sfiorava le labbra nella gioia immensa che vi regnava; contemplava nel suo seno il Verbo eterno che vedeva nel Padre, e la sua vita mortale s’illuminava di splendori eccelsi, poiché era Madre di Dio. L’Amore eterno che l’aveva fecondata, la illuminava tutta ed Ella, a poco a poco, si trasumanava. Sembrava tutta luce e, come un ferro incandescente nel fuoco, brillava, perché traspariva da Lei il Verbo Incarnato.

Il suo corpo immacolato era come spirito, sembrava trasparente, anzi evanescente nella luce del Verbo. L’eterna vita affiorava dalla piccola creatura umana e la passava come raggio che attraversa un cristallo.

Oh, prodigio di Dio! Le madri sentono dolori immani quando un figlio viene alla luce, e sentono strapparsi quasi la vita dalla piccola vita che irrompe nel mondo; Maria, invece, sentiva una gioia immensa a misura che il momento della sua maternità si avanzava. L’amore quasi la liquefaceva e il suo corpo sembrava fluido come una cascata di fulgori placidissimi.

Fu un momento sublime: tratta a Dio, si sentì tutta immersa nella conoscenza dell’infinita sua grandezza, la contemplò amandola, e volle applaudirla con una lode proporzionata che avrebbe voluto trarre dal pieno olocausto di se stessa.

Le ritornò sulle labbra il suo cantico: Magnificat anima mea Dominum e, nell’elevarlo innanzi a Dio con tutto l’impeto del suo amore, non eruppe dal suo Cuore una parola ma il Verbo, la Lode eterna del Padre, e si adagiò sul terreno come un raggio di luce, lodando il Padre nell’umana carne. Era l’umiliato per amore e vagì.

Il Verbo eterno aveva una voce d’immolazione e penava. Non era avvolto dall’eterna Fiamma che lo congiungeva al Padre, ma l’avvolgeva l’atmosfera gelata della notte e tremava. Non aveva trovato altro sulla terra. L’amore materno ritrasse Maria dall’estasi celeste e, scossa dai vagiti del Figlio divino, lo guardò: era perfettissimo, roseo come un bocciolo spuntato nell’inverno, soffuso di bontà, divino, santificante, inondante gioia. Lo adorò, lo prese, lo baciò, lo strinse al Cuore, lo avvolse in pannicelli mondi; nell’avvolgerlo, si sentì tutta inondata di tenerezza e lo ripose in una mangiatoia, perché non aveva altra culla per il Re del cielo.

Adorò, tacque, ricongiunse le mani, volse al cielo lo sguardo e l’offrì al Padre; era un Fiore degno di Lui, era il Figlio suo, ed Ella l’offrì in nome di tutta l’umanità, perché era anche il Figlio del suo seno immacolato.

Il piccolino si addormentò. Ahimè, era troppo triste la terra senza la luce di Dio, ed Egli era la Vittima dei peccati di tutti. Cominciò allora il palpito amoroso della sua immolazione, e si addormentò offrendosi, come se morisse nascendo, poiché il suo sonno era amorosa offerta di sé, come lo era la vita.

San Giuseppe, poco lontano, era stato tutto immerso in una profondissima umiltà. Nessuna creatura sentì mai il proprio nulla come lo sentì lui, in quel momento. Non osò avvicinarsi. Sentiva troppo la grandezza della Madre e la divinità del Figlio.

Maria gli fece un cenno e lo avvicinò a Gesù, Mediatrice d’amore e di misericordia, per la prima volta, tra Gesù e una creatura.

San Giuseppe lo guardò, e l’ombra luminosa del Padre lo avvolse; Egli lo rappresentava, e una grande dignità elevava il povero fabbro ad un’altezza di santità che nessuno mai ebbe in terra, poiché nessuno fu reputato padre del Verbo di Dio Incarnato. Lo prese fra le braccia e, baciandolo, se ne comunicò, perché in quel bacio sentì ardere il cuore di una tenerezza d’amore mai provata; era come la consacrazione del suo grande ufficio d’amore. Lo ripose nella greppia e, genuflesso, rimase in adorazione con Maria…

Passavano in alto gli astri quasi occhieggiando alla terra; la forza infinita che li teneva sospesi in un’armonia perenne era in quell’umile punto smarrito… Sembrò una festa tra le sfere celesti che avevano segnato il primo momento della vita temporale dell’Eterno… Avevano segnato per la prima volta un tempo che non poteva essere fugace e rimaneva negli splendori dell’eterna attualità. Il Signore li aveva sublimati ad una funzione più grande, poiché segnavano, ad uno ad uno, i palpiti d’una vita mortale di valore infinito. La terra era sublimata ad un’altezza mirabile anch’essa, poiché era divenuta il trono di Dio. La natura si ravvivava, e la pia tradizione che ce la fa vedere tutta rifiorire è tutt’altro che una leggenda, poiché essa ha tante volte fiorito anche alla presenza d’un santo, parte privilegiata del Corpo mistico del Redentore.

Dormivano gli uomini, è vero, ed erano immersi in un torpore di morte, perché ingrati; ma, nel compimento della divina promessa, fremettero di gioia i patriarchi e i profeti, e su di essi passò un soffio d’immortale speranza per la prossima liberazione.

Il coro del creato era come nota sommessa che accompagnava le note d’un cantico più bello d’amore, erompente dal Cuore di Maria e di san Giuseppe: Magnificat anima mea Dominum!

FONTE: Don Dolindo Ruotolo; Lc 2,1-14
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