La punta della “spada” profetata dal santo vecchio Simeone non tarda a penetrare via via nell’anima della Madonna, lungo gli eventi della vita del Redentore che si susseguono a più breve o più lunga scadenza. E la fuga in Egitto, storicamente, è il primo di questi eventi dolorosi, che si verifica, di fatto, dopo brevissimo tempo dalla nascita di Gesù, così come è stato registrato dall’evangelista san Matteo (cf. Mt 2,13). Quali sono le caratteristiche di questo evento doloroso che ha costretto alla fuga la Sacra Famiglia?
La fuga in Egitto è stata un evento anzitutto umiliante. Basti riflettere, per questo, che chi deve darsi alla fuga, qui, è Dio stesso fatto Bambino, il quale ha bisogno, letteralmente, di salvarsi la vita, stando fra le braccia della Mamma in fuga, con san Giuseppe, di fronte alla persecuzione omicida del re Erode, che è un piccolo re, rinomato come un povero monarca tanto miserabile quanto feroce nello sbarazzarsi, uccidendo, anche dei presunti attentatori al suo trono, come riteneva fosse uno dei bambini nati a Betlemme.
Potremmo forse pensare, a questo punto, alla sorpresa amarissima della Madonna e di san Giuseppe quando ricevettero la notizia dall’Angelo durante la notte. “Come è mai possibile – avrebbero potuto chiedersi – che l’Onnipotente Iddio debba fuggire di fronte a un piccolo re talmente perverso e geloso del suo reame, da arrivare a premeditare e mandare in atto una strage assassina di numerosi bambini innocenti di Betlemme?”.
Ma la Madonna e san Giuseppe hanno saputo ben rispondere subito a se stessi, comprendendo bene che il mistero del piano universale della Redenzione non può non essere un mistero di amore che ripara i peccati e che salva precisamente attraverso il dolore.
C’è da tener presente, inoltre, che una fuga come questa della Sacra Famiglia – fatta senza nessuna preparazione e organizzazione delle molte cose necessarie per attraversare le lande di un vero e proprio deserto che non può non incutere timore a chicchessia – si presentava come un fatto molto pericoloso e rischioso, oltre che lungo e gravoso.
Come potrà mai una coppia di giovani sposi, con un neonato in braccio, affrontare l’attraversamento del deserto di Giuda, da soli e del tutto inesperti di un viaggio del genere?
Disagi e stanchezza, fame e, ancor più, sete, bestie feroci e predoni, pericoli e affanni senza numero… chi può avere tanto coraggio e fiducia nell’affrontare una impresa come questa? Qui, per la Sacra Famiglia, costretta ad una fuga così impellente e precipitosa, bisogna per forza pensare a una assistenza divina del tutto fuori del comune, una assistenza straordinaria, cioè, che non può venire dalle prudenze o accortezze umane, ma soltanto dall’Alto.
Si può senz’altro pensare, in ogni caso, che se san Paolo, l’apostolo delle genti, nei suoi rischiosi viaggi per l’evangelizzazione e in tutti i suoi grandi travagli apostolici, poteva scrivere: «Tutto posso in Colui che mi sostiene» (Fil 4,13), tanto più san Giuseppe e l’Immacolata, con il tesoro divino del Verbo Incarnato che portavano con loro, potevano dire anch’essi: “Tutto possiamo in Colui che divinamente ci sostiene e ci conforta”.
Certo, è bello pensare che fino ad allora – come ha scritto il pio Abbatelli – alla sola vista di Gesù Bambino, i «due vergini sposi Maria e Giuseppe trasalivano di insolite fiamme, ardevano d’amore, di estasi, di gaudio nel tenerlo fra le braccia, nel coprirlo di soavissimi baci! I loro giorni erano assai più celesti che non furono i momenti dell’innocenza per Eva e per Adamo fra le delizie dell’Eden» (p. 118). Ma che cosa è successo, invece, con quella inaspettata richiesta di una fuga notturna così improvvisa verso l’Egitto, per salvare la vita di Gesù Bambino da una terribile minaccia di morte incombente? È successo loscoppio di un vero e proprio «uragano» (come lo chiama ancora il pio Abbatelli), che è venuto a scompigliare la quiete paradisiaca di quella convivenza nella povera casetta della Sacra Famiglia.
Ma san Giuseppe e la Madonna, con rapidità e calma, obbediscono senz’altro all’Angelo, ben certi di obbedire, in tal modo, a quel piano redentivo di Dio, che era un piano di riparazione e di salvezza dell’umanità peccatrice, un piano da svolgere, perciò, nel segno più concreto dell’amore-sacrificio, dell’immolazione espiatrice. E possiamo ben pensare che, di fatto, ad ogni passo, affondando i piedi nelle sabbie del deserto, la Madonna affondava anche il suo pensiero nel doloroso piano salvifico di Dio da portare a compimento di ora in ora.
Viene qui da ricordare la storia edificante di Giovanni Battista Pergolesi, genio musicale, che ha lasciato, quale sua opera immortale, la musica dello Stabat Mater: questa sublime musica è stata la musica, potrebbe dirsi, del suo grande amore all’Addolorata di cui aveva e portava sempre con sé un quadro che lo animava e sosteneva nel comporre, soprattutto durante gli ultimi giorni della vita che volgeva al termine per lasciare questa terra: in quegli ultimi giorni, minato e ormai consunto dalla tisi, egli venne stroncato da un’emottisi proprio mentre componeva la musica dell’ultima strofa dello Stabat Mater: «Quando corpus morietur…». Nel musicare lo Stabat Mater egli concludeva il cammino della sua vita con una morte santa, confortato dall’Addolorata. Il pio Pergolesi lasciò la musica dello Stabat Mater alla “Congregazione della Santissima vergine dei Sette Dolori”, raccomandando alla carità dei buoni religiosi la sua anima.
PREGHIERA CONSIGLIATA: Corona dei Sette dolori della Beata Vergine Maria