Considerazioni sulla Confessione

Il sacerdote che si dedica con impegno al ministero della confessione può constatare oggi quanti equivoci e quanta ignoranza esistono nei fedeli per ciò che riguarda non dico il fervore nel confessarsi, mal’essenza stessa e i fini del sacramento della penitenza, con i suoi imprescindibili presupposti, come il senso del peccato, il contenuto e lo scopo del sacramento, nonché le disposizioni interiori necessarie per la validità del sacramento. Capita che chi viene in confessionale si ritiene in dovere, forse aspettandosi la lode dal confessore, di garantirgli di essersi comportato bene come farebbe un reo in libertà vigilata che regolarmente va all’ufficio di polizia per dichiarare la sua precedente buona condotta. Oppure c’è chi scambia il confessionale per lo studio di un avvocato, al quale denunciare torti subiti o per il gabinetto di uno psicologo, al quale parlare delle proprie turbe emotive.

Altri sanno certamente che il sacerdote dev’essere un consigliere e un consolatore della sofferenza, per cui scambiano la confessione per un colloquio di direzione spirituale, e allora succede che non parlano dei propri peccati, ma dei propri “problemi”, magari cominciando a narrare la propria vita a partire da molti anni addietro. Quello che soprattutto si nota, nell’attuale atmosfera di buonismo per cui si pensa di essere comunque e sempre innocenti, benintenzionati e in grazia di Dio, è la coscienza lassa, addormentata ovvero ottusa, drogata da una falsa teologia e una falsa pastorale che insistono su di un falso concetto della misericordia divina, sul fatto che ci salveremmo tutti, che l’inferno non esiste e che Dio perdona sempre, anche chi non si pente. Del resto di cosa dovremmo pentirci se siamo tutti buoni? Dei due eccessi della coscienza, lo scrupolo (un tempo molto diffuso) e la rilassatezza, oggi si incontrano quasi sempre i rilassati, mentre gli scrupolosi, i perfezionisti e i rigoristi sono pochissimi. Si tratta di uno spirito tipicamente protestante, che al limite toglie ogni ragion d’essere allo stesso sacramento: “Dio è buono e perdona: di che cosa dovrei pentirmi?”.

La tendenza diffusa non è quella di esagerare la colpa ma di minimizzarla o addirittura di negarla. Capita a volte che il fedele non accetti neppure la norma morale, per esempio in campo sessuale, per cui evidentemente se la trasgredisce, non glie ne importa nulla. Magari lo dice al confessore candidamente, ma anche con una certa supponenza, quasi in tono di sfida. Ma comprensibilmente il confessore, proponendogli di pentirsi, si sente opporre un rifiuto: “se non faccio del male, di che dovrei pentirmi?”. Non riescono non vogliono cogliere l’oggettività e l’universalità della legge morale o pensano di saperne di più del prete o del Magistero della Chiesa. Qui ovviamente mancano persino i presupposti per confessarsi. In questa atmosfera di buonismo e di soggettivismo, molti non credono all’esistenza della cattiva intenzione e della cattiva volontà, che pure sono costitutivi dell’essenza del peccato come materia della confessione: la cosiddetta “piena avvertenza e deliberato consenso”. Non c’è il falso o il cattivo; c’è solo il “diverso”. Se hanno peccato, lo hanno fatto “senza volere” o non sapendo che era peccato. Confondono il peccato con l’errore o sbaglio in buona fede. Non ammettono di aver avuto una cattiva volontà o una cattiva intenzione: “Ho fatto sempre tutto il bene che potevo”, dicono. Non sono mai cattivi, sono sempre buoni. Quali peccati dovrebbero confessare? Alcuni vengono in confessionale e la a prima cosa che dicono, quasi a mettere le mani avanti è: “Non ho peccati”, come uno che andasse dal medico e gli dicesse. “Dottore, godo buona salute, non ho alcun disturbo”. il medico gli direbbe: “Che cosa è venuto a fare?”.

A volte in confessionale sembrano mancare la logica e il buon senso. Sembra a volte mancare un elementare senso di giustizia. Così per esempio si accusano di azioni magari oggettivamente proibite, ma commesse senza sapere che lo erano oppure di atti oggettivamente cattivi ma commessi senza cattiva intenzione, in quanto scusati da una causa di forza maggiore o da un motivo ragionevole e proporzionato, come per esempio il non esser andati alla Messa domenicale per esser stati trattenuti da doveri inderogabili, oppure perché malati od oggettivamente impossibilitati, nonostante ogni buon volere. Si confessano di colpe che non aggiungendo poi che non hanno commesso alcun peccato. A volte manca il senso del peccato veniale. Molti stentano a valutare l’entità della loro colpa. Per “peccato” intendono quello mortale; mancando questo, si ritengono innocenti. Si deve fare allora il paragone con i delitti dei quali tratta i codice penale e lo stesso buon senso. Fanno un’immensa fatica riconoscere il peccato veniale, per cui il confessore deve impartire un’accurata catechesi per spiegar loro l’esistenza e la natura di questo tipo di peccato, che in fin dei conti è il più frequente e ripetitivo, e come esso si può togliere anche senza confessarsi, ma con semplici atti penitenziali personali.

Altri vanno avanti a forza di “forse”, “può darsi”. Occorre allora ricordare loro che i peccati dei quali dobbiamo rispondere a Dio devono essere accertati, così come in un tribunale il giudice non condanna il reo se del suo reato non ci sono prove sufficienti. Alcuni poi si astengono dalla S.Comunione per aver commesso un semplice peccato veniale o addirittura per un atto del quale – per esempio la rinuncia alla Messa domenicale in caso di malattia o impossibilità fisica – erano del tutto scusati. Insomma siamo in una situazione di grande confusione ed ignoranza. La mia impressione è che questi penitenti non siano curati dai loro confessori. Qua è là sono evinte gli influssi criptoprotestanti, soprattutto riguardo alla tendenza buonista e “misericordista”, se così posso esprimermi. Mi accorgo di aiutarli facendo due paragoni: quello della vita medica e quello dell’igiene fisica. Quasi tutti a questo punto capiscono ed alcuni anzi mi ringraziano. Altri rimangono sorpresi e quasi increduli, pur praticando la confessione da decenni e non essendosi confessati da poco tempo: segno evidente che sono abituati male dal loro confessore.

Si direbbe che certi confessori lascino parare queste povere anime a ruota libera, dando poi alla fine un’ “assoluzione” che non so quanto basti o se basti a render valido il sacramento. C’è molto da fare per noi confessori. Non vorrei che anti poeti abbiano troppo poca stima dei questo ministero importantissimo, per il quel si conoscono fondo le anime e c’è la possibilità di per il sacerdote di suscitare vocazioni al sacerdozio o alla vita religiosa o di essere una vera guida alla santità.

FONTE: liturgiaculmenetfons.it, P.Giovanni Cavalcoli, OP – Bologna, 7 maggio 2013

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