I sette vizi capitali

INTRODUZIONE
“Abbi questa scienza suprema:
distinguere i vizi e le virtù,
perché sebbene siano sempre contrari,
tuttavia sono congiunti
da così grande somiglianza tra loro
che si possono distinguere a stento”
(San Girolamo)
La virtù e il vizio hanno in comune il concetto di essere una buona o cattiva qualità prodotta nell’anima dalla ripetizione di atti moralmente buoni o moralmente cattivi della medesima specie, ma differiscono nella sostanza e nel fine: l’una è ripetizione di opere buone, l’altro di peccati; la prima tende al meglio, il secondo al peggio. Sono lue termini che si escludono come la luce e il buio.
Sono molte le virtù e divisibili in classi secondo il diverso punto di vista con il quale si considerano, per esempio secondo l’origine, l’ordine, la connessione ecc., ma si suole riassumerle in sette virtù che possiamo chiamare “capitali”: tre teologali (Fede, Speranza, Carità) e quattro cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza).
Più numerosi sono i vizi perché si oppongono alle virtù o per difetto o per eccesso. Si possono tuttavia ridurre ad alcuni detti “vizi capitali” 1, cioè principali, radicali, fondamentali, non perché siano gli unici o i più gravi, ma perché ognuno di essi è come il capo, ossia presupposto, padre, principio, motivo, direttore, conduttore di altri peccati e vizi che da esso direttamente derivano, anche di genere diverso da quello del vizio che li produce: per es. l’avidità di un truffatore diventa un impasto di menzogne e di frodi.
Ed eccone i nomi, tra i più tristi del vocabolario umano: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia 2. Formano un elenco non per soddisfare il capriccio dei teologi che vogliono sistematizzare tutto o per esercitare la memoria dei bambini che studiano il catechismo, ma precisamente per indicare i fondamenti della peccaminosità.
E sono sette: tanti ne hanno contato quasi unanimemente i moralisti sin dai primi secoli della Chiesa appoggiandosi alla Sacra Scrittura che li cita non sistematicamente, ma uno alla volta o in gruppo: tanti in corrispondenza, secondo san Tommaso, alle sette istintive tendenze malsane dell’uomo che ricerca disordinatamente quattro specie di beni e rifugge da altri tre beni ai quali però è unito il male. L’uomo pretende: la propria eccellenza (ecco la superbia), la conservazione dell’individuo (e l’abuso dei cibi causa il vizio della gola), la propagazione e il progresso della specie umana (e l’uso disordinato dei sensi provoca la lussuria), la propria ricchezza (e per aumentarla si cade nell’avarizia). Inoltre l’uomo rifugge: dal proprio bene spirituale a causa della fatica che esso comporta (e in ciò sta l’accidia), dal bene altrui che lo rattrista in quanto ritenuto lesivo della propria importanza (e questa è invidia), ancora dal bene altrui, che si teme e si combatte (ed è ira).
In parole più semplici si può ricondurre la trama dei vizi capitali ad una sola fonte: l’amore esagerato di se stesso – come preferiva dire, per es. santa Caterina da Siena – ossia amore esageratamente portato ai propri pregi per averne lode e onore (superbia), alla roba per esserne padrone (avarizia), ai piaceri carnali per sfogarsi (lussuria), alle proprie posizioni contro tutto ciò che è noia o impedimento (ira), al mangiare e al bere (gola), al proprio bete che si crede minacciato dagli emuli o dai rivali (invidia), alle proprie comodità compromesse da disagi e disturbi (accidia).
I vizi capitali non hanno la medesima malizia. La superbia, l’avarizia, l’invidia e l’accidia sono soprattutto vizi dell’anima e più colpevoli; la lussuria, la gola e l’ira sono soprattutto vizi del corpo e più degradanti.
La gravità di colpa non è la massima e non è la stessa per tutti. Non è la massima perché molti peccati sono più gravi di quelli capitali: per es. i peccati che si oppongono alle virtù teologali; non è la stessa per tutti perché la lussuria produce, ordinariamente, peccato mortale e gli altri sei vizi causano, di solito, peccato veniale, anche con maeria grave quando mancano la piena avvertenza e il deliberato consenso.
Questa venialità però non consente di guardare ai vii capitali con leggerezza.
Derivando da una tendenza innata nella natura umana decaduta a causa del peccato originale, essi, per l’ampiezza e l’incisività della loro azione contro beni particolarmente importanti, rimangono pur sempre pericolosi per la vita morale dell’uomo che, se lOn resiste ai loro assalti, si troverà inevitabilmente sempre più soccombente. Particolarmente insidiose sono la superbia, la lussuria, l’invidia e l’accidia perché più radicate in noi. I primi tre vizi (superbia, avarizia e lussuria) formano lo spirito del mondo (ossia la cattiveria di quelli e si fanno schiavi delle passioni) secondo il pensiero San Giovanni (1 Gv 2,16).
I vizi capitali portano inevitabilmente a trasgredire i dieci Comandamenti. L’avarizia viola il settimo e decimo Comandamento; con la lussuria si manca al sesto e al nono; con l’accidia si disobbedisce al primo e al terzo; dandosi alla superbia, all’ira, all’invidia e alla gola si vien meno al secondo, al quarto, al quinto e all’ottavo Comandamento. Tutti e sette i vizi sono comunque intimamente connessi tra loro – si pensi per es. alla lussuria e alla gola – di modo che cedere a uno di essi implica di conseguenza la resa più o meno larga agli altri.
Il danno inflitto all’anima e talvolta anche al corpo da questi vizi è tutt’altro che lieve in perdite, vergogne, rimorsi, sofferenze, malattie e anche morte, perché “nessun vizio senza supplizio” (proverbio), anche “nella sorte più serena di se stesso il vizio è pena” (Metastasio), e un vizio solo può oscurare molte virtù.
È una illusione credere di essere senza ombra di viz.io (perché non si hdnno quelli degli altri o perché non li si sente addosso), ma ognuno ha come passione predominante qualcuno dei sette vizi capitali e ha il dovere di combatterlo con particolare attenzione senza dimenticare di contrastare gli altri, per non rischiare di mettersi in pericolo di colpa grave.
E per vincerli, ognuno ha bisogno di conoscerli tutti nella loro natura e nel loro significato in modo che impari a dirsi, per es. non semplicemente vanitoso ma superbo, non puramente maldicente ma invidioso; conoscerli perché i vizi si imparano senza maestri ma non si vincono con l’ignorarli; conoscerli, anche se qualche peccato può derivare da altre cause.
Non prendere i mezzi convenienti per indebolire ed eliminare un vizio significa rendersi responsabile degli atti disordinati previsti sia pur confusamente come conseguenza del non aver preso i mezzi e commessi anche se senza avvertenza, e responsabile in misura maggiore o minore secondo il grado di negligenza.
Rimedi generali per vincere i vizi capitali sono la conoscenza di sé stesso, la preghiera, l’uso frequente della Confessione e della Comunione, la pratica della mortificazione, l’istruzione religiosa, l’amicizia con i migliori. Rimedi particolari contro i singoli viz.i sono quelli suggeriti dalle virtù che ad essi si oppongono: l’umiltà rimedia alla superbia, la liberalità all’avarizia, la castità alla lussuria, la mansuetudine all’ira, la sobrietà alla gola, la fraternità all’invidia, la diligenza all’accidia. Queste virtù sono parti di alcune di quelle sette che abbiamo chiamate “virtù capitali”: l’umiltà, la castità, la mansuetudine e la sobrietà sono parti della Temperanza; la liberalità è parte della Giustizia; la diligenza lo è della Fortezza; la fraternità lo è della Carità. Il rimedio ad uno dei sette vizi è contemporaneamente rimedio anche agli altri.
Vincere i vizi capitali non è impossibile ma nemmeno facile. Essi hanno alleati nell’indole, nel temperamenlo, in una debolezza o predisposizione ereditaria, insomma in fattori fisici che aumentano la propensione cattiva e attenuano la capacità di resistenza ad essa. Tutti gli uo mini portano dalla natura le tendenze maliziose e tutti, hanno quindi, almeno in radice, i vizi capitali concorrendo così a creare un ambiente continuamente bisognoso di purificazione. Non è possibile estirpare la concupiscenza, che è in noi più che l’aria nei polmoni e il sangue nelle vene, ed è la radice di questi vizi. È ben possibile però essere vigilanti e approfittare degli aiuti che il buon Dio dà a ciascuno certamente e abbondantemente. Il vizio non conduce inevitabilmente a ripetere sempre il peccato, anche se i peccati ripetuti hanno portato al vizio.
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1) Si usa anche dire “peccati capitali”, ma con questa espressione si intendono i fatti, gli atti, i comportamenti mentre, ripetiamo, con le parole “vizi capitali” sono indicate le abitudini radicate, le inclinazioni forti prodotte dalla ripetizione dei peccati.
2) Questo che abbiamo detto è l’ordine di successione più in uso oggi, con qualche nome leggermente spostato rispetto agli altri ordini di successione dei secoli scorsi che si ricollegano tutti a quello fissato da san Gregorio Magno (+ 604). Anzi già il pagano Orazio aveva precisato e classificato questi vizi. – I vizi capitali sono stati materia di studio non solo dei teologi moralisti ma anche di poeti (Dante nella Divina Commedia, Chaucher nel Parson’s Tale, Marlowe nel Dottor Faust), di registi e di giornalisti.


LA SUPERBIA
“Perchè si insuperbisce
chi è polvere e cenere?
Anche da vivo
le sue viscere
sono ripugnanti”
(Sir 10,9)
La superbia (1) è il cercare la propria eccellenza per innalzarsi indebitamente sopra gli altri e per sottrarsi completamente a Dio.
Il male non sta nel cercare la propria eccellenza, ma nel cercarla fuori di misura e con mezzi illeciti. Non può dirsi superbo lo studente sol perchè mira alla promozione e alla bella votazione; il commerciante sol perchè cerca maggior clientela e miglior guadagno; il professore che trasfonde nell’insegnamento la scienza imparata; il medico che sostiene la propria diagnosi; l’autore che diffonde le sue composizioni; il calunniato che difende il suo onore; il coraggioso che si oppone all’ingiusta autorità per rimanere fedele alla Fede e alla Verità.
C’è una precisa dignità personale da salvaguardare doverosamente per il rispetto dovuto a se stesso prima , che agli altri secondo la raccomandazione della Bibbia: “Abbi cura del tuo buon nome, questo infatti ti varrà più : che mille tesori d’oro” (Sir 41,12), e per non cadere in un altro vizio egualmente condannabile, nella pusillanimità, di cui è esempio quel servo del Vangelo che sotterrò il talento ricevuto e fu punito dal padrone (Mt 25,14). È lecito pertanto stimare il bene che Dio ha messo in noi, sempre però riconoscendo Lui come Datore di tutti i beni; e anche desiderare che gli altri stimino questo nostro bene perché rendano a Dio la dovuta gloria e perché sia accresciuta la possibilità di fare del bene.
È permesso procurarsi la stima del prossimo in quanto è conveniente al proprio rango e utile ai buoni rapporti che si devono tenere con gli altri. È legittimo l’amore per se stesso e lo sforzo di elevarsi per diventare migliore e più utile. Ma si esagera nell’apprezzarsi e cercare di emergere, e quindi si pecca, quando si violano i diritti di Dio e i diritti del prossimo. Ciò può accadere in campo spirituale, intellettuale, materiale, sociale; e attraverso gradi, che vanno da minore a maggiore gravità.
Meno maliziosa può essere considerata la superbia di coloro che si preferiscono agli altri o addirittura li di- I sprezzano ritenendoli inferiori e spregevoli. È la forma di superbia più frequente e più estesa che si pasce di illusione, ignoranza, incoscienza, leggerezza, egoismo e malanimo contro Dio, come se Egli non avesse comandato di stimare, anzi amare tutti e come se avesse lasciato qualcuno senza pregi di natura, di fortuna o di Grazia (2).
Più maliziosa è la superbia di quelli che, non considerando i propri limiti e difetti, si attribuiscono doti che non hanno o ingrandiscono quelle che posseggono, pretendendo che gli altri gliele riconoscano. Costoro peccano di malafede, inganno, falsità, frode contro il prossimo e cattiveria contro Dio che accusano di non essere stato generoso nel dare a loro, anzi di aver fatto una ingiusti:ia non dando ad essi quelle qualità che fingono di avere (3).
Ancora più maliziosa è la superbia di chi ritiene dovuto alla propria capacità e ai propri meriti ciò che invece ha ricevuto da Dio come dono. È come se dicesse: “Dio mi ha dato la natura, ma sono stato io a svilupparla senza di Lui e me la godo tutta da solo. lo faccio onore alla natura e Lui non deve averla a male se io mi sono affermato senza il suo concorso”. Stridono in questa maligni- . tà l’ingratitudine contro Dio, la pretesa di fare da sé, un senso di sfida agli avvenimenti come se il superbo potesse dominarli, un sentimento di cinismo degno del pagano I Diogene (4).
Maliziosissima infine è la superbia di colui che si compiace delle proprie qualità come se ne fosse l’autore e pretende di essere dio e quindi servito e osannato da tutti, non dovendo nulla ad alcuno e avendo tutto da se stesso. È una forma di superbia rara a trovarsi nella storia degli uomini, ma non per questo meno stolta e meno mostruosa. È propria degli atei, dei superuomini, dei pazzi, dei tiranni. Costoro se la prendono direttamente con Dio e si mettono al posto Suo, convinti di non esserci mai stato un Dio prima di loro (5).
Come poi si comporti il superbo in pensieri, sentimenti, desideri, parole, azioni, atteggiamenti, costume, non bastano pochi tratti a dirlo. Egli stima soprattutto, se non soltanto, se stesso; non ha tempo né modo di lodare gli altri per timore di essere avvilito dal loro valore, anzi degli altri parla male; si crede importante; è certo di non ingannarsi nel giudicare e non crede perciò a chi vorrebbe persuaderlo del contrario; cerca l’onore in persone o cose che non meritano neppure stima o almeno non quanta egli pensa; se è costretto a riconoscersi un difetto, si scusa subito addossando la colpa agli altri.
Tratta le cose serie con leggerezza e le cose leggere con serietà; accetta facilmente il falso che lo accarezza; ama essere lodato proprio in ciò che di lui è meno o per nulla apprezzabile; dispensa consigli e sentenze anche a chi non glieli ha chiesti; si esalta sentendosi lodare.
Parla spesso di sé e di ciò che gli ridonda a lode per farsì stimare sempre di più; afferra o inventa tutte le occasioni per mettersi in mostra; è disposto anche a perdere purché si parli di lui; si vanta pure dei mali sofferti.
Si impegna facilmente in uffici superiori alle sue capacità; promette e non mantiene; è convinto di sapere bene quello che· invece conosce appena; crede di potere più di quanto vale; non prega Dio perché non ne vede il bisogno; non chiede consiglio agli altri perché li ritiene inferiori e incapaci; non ha paura degli ostacoli; non prende precauzioni; si giudica indispensabile.
Vuol essere superiore a quanti lo circondano; vuol comandare, non importa se all’aperto o al chiuso, se a moltissimi o a pochissimi; sollecita onori non dovutigli e usa mezzi illeciti per avere quelli che gli fossero dovuti; genuflette anche dinanzi all’ingiustizia purché questa lo porti in alto; accetta come favori anche le umiliazioni a patto che queste gli permettano di prevalere poi; per raggiungere uno scopo si mostra quale un altro lo vuole, anche a costo di degradarsi lì per lì; si abbassa temporaneamente con la speranza di rialzarsi più in su.
Vuol essere l’eccezione in mezzo alla regola generale; si compiace fare diversamente da quello che gli altri fanno; preferisce contrastare anche nei particolari più insignificanti.
Si offende facilmente al minimo sospetto; non accetta per buono neanche uno scherzo a lui contrario; si adombra anche se uno solo non lo rispetta; vede un torto ricevuto in quello che è una semplice contrarietà accadutagli; valuta come mancanze e colpe degli altri quelle che sono appena distrazioni e negligenze; si indispettisce quando non riceve i riconoscimenti che si aspetta; fa l’offeso anche con Dio ritenendo immeritate le croci che riceve; non compatisce e non perdona il torto subito ma lo pensa e ripensa per vendicarsi.
Non va per il sottile quando vuole offendere qualcuno; si compiace di gesti rumorosi e di parole altisonanti; sente ira per la superbia o anche per l’onesta superiorità degli altri; non sopporta di essere umiliato o semplicemente mortificato; detesta la verità che lo punge; rimprovera chi commette errori per dimostrare che egli non li commette; vuol dire lui l’ultima parola su tutto.
Ostenta una virtù che non ha per nascondere un vizio che ha; mentisce mentre si professa sincero; cambia atteggiamento secondo l’interesse senza ritegno di esse· re smascherato; quando è visto, compie l’opera buona per farsela accreditare, ma non la compie quando non è visto; se talvolta serve qualcuno, è per interesse.
Quanti peccati nel superbo! Vi si riconoscono chiaramente la vanagloria, la vanità, la millanteria, la presunzione, l’ambizione, la singolarità, la permalosità, l’ostinazione, la prepotenza, l’ostentazione, la disobbedienza, il disprezzo per gli altri, lo spirito di rissa, l’egoismo, l’ipocrisia (6).
E quanta malizia! La malizia del disprezzo, e disprezzo contro Dio. Tanto più grave la malizia, quanto più grave il disprezzo. Malizia di diavolo, e dell’uomo fattosi simile al diavolo. Malizia di pensiero e di volontà: di pensiero perché si arroga beni che non ha e attribuisce al proprio merito i beni che invece ha ricevuti in dono; di volontà perché mira intenzionalmente a sopravvalutare il proprio essere reale e a diventare “quello che per natura non può diventare. È la malizia più maliziosa. Parrebbe impossibile che l’uomo potesse arrivare a tanta aberrazione. Sarebbe incredibile se non ci fosse l’esperienza più convincente.
Sembra una la superbia, ed è molteplice; pare di un sol colore ed è invece di tutti i colori. Non pochi moralisti vorrebbero metterla al di sopra dei vizi capitali e al di fuori del loro elenco, come madre di tutti i vizi, peccato “capitalissimo”, principio e termine di ogni colpevolezza.
Non è facile capire tutta la malizia della superbia, è più difficile conoscerla che combatterla, è difficilissimo misurare sino in fondo la sua gravità.
La superbia si oppone direttamente a Dio, cioè non a un suo comandamento o a una sua opera, ma a Lui stesso. Gli altri vizi si commettono ordinariamente per debolezza o passione o seduzione del mondo o godimento di qualche bene; la superbia invece si commette per la sola malizia. Gli altri vizi, per così dire, fuggono da Dio; soltanto la superbia lo affronta e lo combatte, anzi ne usurpa i diritti e Gli nega la gloria dovutagli attribuendo a se stessa ciò che invece appartiene a Lui solo. Gli altri vizi danno compimento alloro male separandosi da Dio; la superbia al contrario comincia il suo male separandosi da Dio. Gli altri vizi si nascondono, quasi vergognandosi della cattiveria che operano; all’opposto la superbia si fa sempre vedere, qualunque cattiveria operi.
Gli altri vizi possono dirsi semplicemente umani; la superbiajnvece è diabolica, anzi è l’essenza stessa del peccato, a tal punto che la colpevolezza di ogni peccato si misura dalla quantità di superbia che lo ispira; è la radice degli altri vizi capitali, per es. “brilla nel sorriso dell’invidia, splende nella licenza della lussuria, conta l’oro dell’avarizia, scintilla negli occhi dell’ira” (Chateaubriand). Dalla superbia ci si corregge difficilmente, tanto essa è sottile, variopinta, resistente.
Sant’ Alfonso Rodriguez la sentiva fin sul letto d’agonia, San Francesco di Sales la dice destinata a morire un quarto d’ora dopo di noi. Anche quando la si depreca e maledice, se ne resta contagiati per l’intima, segreta compiacenza di saperla deprecare e maledire. Paul Claudel ritiene: “È più facile rinunziare alla propria gioia che alla propria superbia”.
Non possono essere pertanto che rovinosi i danni provocati da tanta gravità. Gli altri vizi combattono quelle sole virtù alle quali si oppongono: per es. l’ira si oppone alla sola mansuetudine, la gola alla sobrietà, la lussuria alla castità, ma la superbia combatte tutte le virtù, traendo cattivo alimento persino dalle opere buone, anzi – afferma Chesterton – “è un veleno così mor,tale che non solo avvelena le virtù ma anche gli altri vizi”.
La superbia contamina tutti: dotti e ignoranti, cattivi e buoni, ricchi e poveri, padroni e operai, ragazzi e adulti, tanto essa si presenta seducente come una virtù. Ci si vergogna di ubriacarsi o di rubare, ma non di mettere in evidenza la propria superiorità.
La superbia scompiglia la società, essendo un vizio di sua natura antisociale e trovandosi inevitabilmente all’origine della lotta di classe che divide e tormenta gli uomini. Essa genera rivalità, odi, calunnie, vendette, guerre. “La superbia ci divide anche più dell’interesse” (A. Compte) (7).
È logico pertanto che questo vizio attiri i castighi di Dio, anzi essi sono più frequenti di quelli meritati dagli altri vizi, oltre che castighi severi e tante volte immediati. Dio ha detto: “Piomberò sopra i superbi per colpirli” (Is. 2,12), “Nel mio furore disperderò e confonderò i superbi” (Gb. 9,6) “lo detesto l’arroganza e la superbia” (Prov. 8,13), “Tu che abiti nei crepacci delle rocce e risiedi in alti luoghi, dici in cuor tuo: Chi potrà farmi crollare a terra? Anche se tu fossi salito in alto come l’aquila e avessi posto il tuo nido tra le stelle, io di lassù ti farò discendere” (Abd. 3,4).
Alcune punizioni sembrano caratteristiche del primo vizio capitale. Dio, mentre infligge agli altri vizi una pena generale, suole invece infliggere alla superbia la pena particolare, quella che le è più opposta e quindi più sensibile.
Castigo della superbia è l’inquietudine nel corpo e nell’anima. Per assecondare la sua passione il superbo mette in agitazione il sistema nervoso, sottopone il cuore a un lavoro troppo intenso, altera le funzioni dell’organismo, ha il polso accelerato, mantiene il volto abitualmente crucciato, si rende difficile la digestione (8). Ma egli è inquieto soprattutto nell’anima. Difatti non gode neppure quel bene che potrebbe godere perché lo fa patire ciò che gli manca; sente come tolto a sé quello che si dà agli altri; si espone inevitabilmente, e inutilmente, a delusioni, critiche, scherni, antipatie; non riesce a soffocare del tutto il rimorso della coscienza; soffre tutto e tutti perché non è mai soddisfatto; è insaziabile di ambizione sino all’ingenuità; è fondamentalmente malinconico (9).
In verità. tutte le passioni ammettono talvolta un po’ di tregua, ma la superbia tormenta continuamente. Negli altri vizi si prova qualche piacere, benché basso e immagi nato, ma nella pretensiosa superbia si comincia a sentire qualcosa che somiglia alla disperazione dell’inferno.
Castigo della superbia è l’umiliazione. Il superbo era certo di edificare, e invece deve accorgersi che ha distrutto; vede il mezzo stesso con il quale si era indebitamente innalzato, trasformarsi in occasione di caduta e di vergogna; si sente abbattuto dalla stessa forza che prima lo aveva esaltato; credeva di avere giocato tutti e al contrario è rimasto giocato lui; deve fare adesso con disonore quello che una volta non voleva fare per superbia; credeva di abbracciare la vittoria ed ecco che ha stretto tra le braccia la sconfitta; aveva lavorato lungamente per salire ed ora scende di colpo, più vistosamente era salito, più rovinosamente cade (10). Ha ragione Beachêne: “Più parliamo dei nostri meriti, meno gli altri ci credono”.
E con il fallimento, tante volte anche la beffa! lnsomma la superbia finisce con 1′essere non solo sterile e maledetta ma anche derisa. “Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo” (proverbio). Ridicolo ben amaro se si pensa che, innegabilmente, la superbia spinge a progetti coraggiosi, a imprese rischiose, a impegni grandi (11). Castigo della superbia è la solitudine. Difatti il superbo non è cercato da nessuno come amico e compagno, al massimo è sopportato da chi gli deve stare vicino. Egli dimostra nel suo contegno qualcosa che ripugna, allontana e respinge; fa capire che non ama nessuno e gli altri non amano lui; anche quando cerca benevolenza, non la trova; anche quando vorrebbe nascondere i suoi sentimenti per non urtare la suscettibilità del prossimo, non ci riesce; è schivato perché pensato non solo inevitabilmente nemico ma anche contagioso del mal di superbia, dal quale ogni benpensante si sforza di stare lontano (12).
Castigo della superbia è la lussuria. Il superbo si esalta credendosi più che uomo, virtuoso, spirituale; ma, per inesorabile contrappeso, la carne lo trascina al basso, sempre più giù, rendendo lo animalesco, con la dimostrazione più convincente. Dio umilia nella carne quelli che si esaltano nello spirito. La superbia è la lussuria dello spirito e la lussuria è la superbia della carne. Come “l’umile è casto quasi senza sforzo” (A. Vermeersch), così il superbo è lussurioso con tutta facilità (13).
Si potrebbero citare altri castighi caratteristici del primo vizio capitale, ma pare sufficiente riassumerli tutti in questo pensiero: il castigo della superbia è la superbia stessa. Difatti quando Dio castiga un superbo, non fa altro che abbandonarlo alla superbia; anzi, precisa s. Agostino, quando Dio permette al superbo di compiere i suoi disegni, gli permette di scavarsi la fossa. San Francesco di Sales arrivò a dire: “Meglio tutti gli altri vizi, ma non la superbia!”
Il rimedio a tanto male esiste ed è l’umiltà. Essa insegna a non parlare di sé né in bene né in male, a non vantare i propri meriti, a non compiacersi delle lodi, a non abbattersi per gli insuccessi, a non disprezzare nessuno, a riconoscere i propri torti, ad accettare le critiche, a ricordarsi sempre d’essere peccatore, ad accogliere le umiliazioni, a obbedire all’autorità, ad attribuire tutto il bene a Dio e a fare tutto per Lui. Essa insegna l’unica vera grandezza possibile all’uomo dinanzi a Dio e dinanzi alla storia, essendo in essa “grande abilità” (S. Tommaso), “qualcosa che esalta stranamente il cuore” (S. Agostino), “l’arma più potente per vincere il demonio perché, non sapendola egli per nulla adoperare, non sa neppure difendersi da essa” (S. Vincenzo de’ Paoli).
L’umiltà è la prima virtù, non per eccellenza ma per fondamento, è nel mezzo di ciascuna delle altre virtù, al punto da far apparire le altre virtù come diverse forme della medesima umiltà, tanto essa le precede, le accompagna e le segue: ad esempio, la Fede è l’umiltà della ragiol’umiltà della gola. Come i gioielli si custodiscono meglio ne, la castità è l’umiltà della carne, la temperanza è l’umiltà della gola. Come i gioielli si custodiscono meglio nella cassaforte, così tutte le virtù si conservano meglio nello scrigno dell’umiltà.
Questa è necessaria a tutti, ai grandi come ai piccoli, secondo la raccomandazione della Sacra Scrittura: “Quanto più sei grande, tanto più sta’ umile” (Sir. 3,18). Non acquista le altre virtù chi non cerca di acquistare l’umiltà, anzi le impedisce e le disperde fin dal loro prima apparire. San Bernardo dà per certo questo: “Un carro carico di peccati tirato dall’umiltà conduce al cielo; un carro carico di buone opere tirato dalla superbia conduce all’inferno”.
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1) Non è inutile precisare il significato di due termini usati spesso come sinonimi di superbia: “Orgoglio” è talvolta più che superbia: la superbia si gonfia di quello che è e tende in alto, l’ orgoglio è tanto pieno di sé che si contenta dell’esser suo e non sa vedere più in là… L’amor proprio non è più che un puntiglioso desiderio, il più delle volte giustificato, dell’approvazione altrui per i propri atti, del riconoscimento dei propri meriti” (G. CESANA, La parola giusta al momento giusto, De Vecchi, Milano 1967, pp. 500-501).
2) Paracelso iniziò la sua scuola a Basilea con queste parole: “Sappiatelo subito medici. Il mio berretto è infinitamente più dotto di tutti voi messi insieme e la mia barba ha più esperienza di tutte le vostre cliniche e accademie. lo sarò il vostro re. Voi mi seguirete e pulirete i miei fornelli”.
3) Una soprano che si piccava di essere scrittrice, mandò la propria fotografia a Giovanni Papini firmandosi scrittrice, e Papini le spedì in ironico contraccambiò la propria foto firmandosi soprano!
4) Il capitano francese Créqui cadde dalle scale di casa sua e le percorse tutte quante rotolandosi senza farsi tuttavia alcun male. All’amico che gli diceva di ringraziare il Signore come di un miracolo rispose: “Mi guardo bene dal ringraziare Dio che mentre ruzzolavo non mi ha risparmiato neppure un gradino”.
5) Alessandro Magno. imbaldanzito da tanti successi. non si considerò più figlio del re Filippo, ma del dio Giove Ammone; non soddisfatto ancora, pretese poi l’incenso e l’adorazione, ritenendosi Il non più figlio di dio, ma dio egli stesso. Si faceva chiamare l’lmmortale e voleva che nessuno portasse il suo nome, a meno che non fosse valoroso in battaglia. Intimò a un vile che si chiamava come lui: “O cambi nome o cambi vita”.
6) Si può vedere un esempio di questi peccati in Napoleone. Quando giocava a carte, a bocce o ad altri giochi, voleva vincere sempre, non perché tenesse al guadagno, ma perché non ammetteva che eglj potesse essere vinto, nemmeno al gioco. E pur di vincere, imbrogliava. – Sebbene fosse quasi abitualmente nervoso e scontroso. si inteneriva di colpo quando si sentiva lodare. per es. quando lo chiamavano “l’aquila” o “il contrappeso di tutte le potenze nemiche” o quando gli dicevano: “Dio fece Napoleone e poi si riposò”. – Disse all’ambasciatore di Russia: “Fra cinque anni sarò padrone del mondo; rimane ancora la Russia, ma la schiaccerò”. Quando entrò in Mosca, fece coniare una medaglia raffigurante da una parte la sua testa e dall’altra la scritta: “Il cielo è tuo, la terra è mia”. Quel “tuo” era rivolto a Dio, come sfida. – Non volle credere per dieci anni a Fulton che aveva messo a sua disposizione la prima nave a vapore da lui inventata; lo trattò da visionario e lo chiamò ciarlatano. – Progettava di consegnare alla storia la dinastia dei Napoleoni. la voleva continuata nei secoli non meno delle altre dinastie e voleva goderne non solo l’inizio della fondazione ma anche lo sviluppo delle prime generazioni. Ripeteva spesso: “Ah, se io fossi mio nipote!” – Mentre i precedenti sovrani di Francia si mostravano ai cortigiani anche in maniche di camicia o a torso nudo, egli non si faceva mai vedere nell’intimità, evitava di far conoscere la sua camera da letto e di farsi vedere mentre mangiava. Voleva che la sua corte vedesse in lui un essere esente dai bisogni fisici. – Disse al cardinale Caprara: “Qualunque cosa vogliate dire e qualsiasi cosa siano per ripetere da Roma: è tutto inutile perché. lo ripeto. la mia decisione è immutabile. lo non cedo”. – Egli stesso si prese la Corona Ferrea e se la pose con maestà sul capo pronunciando ad alta voce le minacciose parole: “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!” – Fece l imprigionare Pio VII e poi, impressionato dall’universale condanna, scrisse: “Sono spiacente che si sia arrestato il Papa: è una, grande pazzia”, Fece pubblicare dai giornali che il Papa aveva lasciato Roma spontaneamente e all’insaputa dell’Imperatore. Dopo avere tenuto Pio VII prigioniero tre anni sotto rigorosa custodia, quando cercò di strappargli un concordato a favore della Francia e a danno della Chiesa, andò da lui, lo abbracciò, lo baciò e lo chiamò padre. – Con questa sequenza di ricordi non si intende negare ciò che di buono c’è nella storica figura di Napoleone, ma semplicemente dimostrare come tutte le componenti della su perbia siano riscontrabili nella stessa unica persona.
7) Efficace l’affresco del Lorenzetti che. nel palazzo del comune di Siena, rappresenta la superbia quale causa determinante del mal governo, insieme con l’avarizia e la vanagloria.
8) Quanto sonno dovette perdere Assalonne che, volendo usurpare il trono di suo padre Davide. si faceva trovare ogni mattina di buon’ora alla porta di Gerusalemme per interessarsi delle faccende dei cittadini e renderli suoi sostenitori, arrivando ad abbracciarli e baciarli! (2 Sam 15, 15).
9) Hans Christian Andersen diceva: «La mia anima si sente felice solo dinanzi all’ammirazione. Se però in mezzo a questa ci fosse la disapprovazione di uno solo, anche del più insignificante, io diventerei subito grandemente infelice».
10) Diceva Pio VII ai cristiani, a proposito del prepotente Napoleone: «Non temete… l’Imperatore… ha il nemico che lo annienterà: la superbia».
11) Giovanni Cappellini era insigne geologo e paleontologo, ma irritava gli alunni con il suo continuo parlare in prima persona singolare. Un giorno i pochissimi alunni rimasti alla sua scuola gli fecero trovare dietro la cattedra un disegno raffigurante una specie di monumento e recante la scritta: «lo, a me stesso, posi».
12) A pranzo, Riccardo Wagner non faceva altro che chiedere ammirazione a tutti, e Bismark lasciò la mensa e la compagnia dicendo: “Mi è impossibile sopportare a lungo la sua presenza”.
13) Enrico VIII era stato proclamato “Defensor fidei” da papa Leone X, poi divenne divorzista, scismatico, concubino, uccisore di mogli, scomunicato, persecutore della Chiesa. “… il più basso… dei tiranni che il mondo abbia mai visto, sia tra i pagani che tra i cristiani” (CORBERT, History of Protestant Reformation).


L’AVARIZIA

“Chi ama il denaro, mai di denaro è sazio;
e chi ama la ricchezza, non ne ha mai abbastanza”
(Qo 5,9)
L’avarizia è il trattenere i beni materiali (denaro,case, campI, vestiti, mobili, macchine, animali, libri, oggetti ecc.) per l’eccessivo piacere di tenerli e aumentarli per sé quando invece sarebbe necessario o opportuno farne uso.
Quindi non è, di per sé, avarizia il possedere beni. Ve ne sono di quelli necessari e di quelli convenienti che lon si possono rifiutare.
Beni necessari sono quelli che servono a conservare e sviluppare la propria vita, a costituire una famiglia e provvederle l’occorrente, ad affrontare le malattie, la carestia e la vecchiaia. a studiare e mettere a profitto gli studi fatti, ad esercitare una professione o un mestiere (cibo, vestito, medicine, casa, lavoro ecc.).
Beni convenienti sono quelli che consentono una ragionevole tranquillità di fronte alle incertezze dell’avvenire e una certa libertà di aiutare il prossimo secondo giustizia e secondo carità, perché anche l’aiuto agli altri Dio ha inteso dando i beni all’uomo, conformemente alla raccomandazione di Gesù: “Fatevi degli amici con le ricchezze” (Lc. 16,10).
Allo stesso modo non è avarizia il cercare di accrescere i propri beni con l’onesto guadagno, nell’interesse della propria persona e della famiglia. Non lo è nemmeno il ridurre il più possibile le spese per aumentare le provviste da opporre agli inevitabili imprevisti dell’avvenire.
Quindi si può essere ricchi senza essere avari, anzi si può essere nello stesso tempo ricchi e buoni, anche santi. Abramo era ricco ma non avaro, Giuda era povero e avaro. D’altra parte chi non cerca il necessario per i suoi bisogni viene meno a un preciso dovere, e chi spreca i beni che ha, cade nel vizio non meno condannabile della prodigalità.
Ma il trattenere i beni posseduti e il piacere di aumentarli diventano eccessivi e quindi peccaminosi quando li si ricerca mancando della giusta misura nel modo,” nel fine e nei mezzi: nel modo, cioè con tanta ansietà nel cercarli, nel tenerli, nell’aumentarli e nel timore di perderli da trascurare i doveri del proprio stato e i diritti i degli altri; nel fine, ossia riponendo nella brama e nel possesso dei beni materiali tutta la propria felicità, come se si fosse al mondo solo per essi; nei mezzi, cioè con procedimenti che vanno contro la giustizia e contro la carità da osservare verso se stesso e verso gli altri.
Ed ecco come agisce l’avaro. Non gode mai tanto come quando consegue un guadagno, e al contrario non soffre mai tanto come quando subisce una perdita; tiene conto solo di quello che dà, e non di ciò che riceve; vorrebbe soltanto ricevere, e mai dare; comprando pretende sconti e rate, e vendendo esige contratti e ipoteche; se non riscuote quanto gli spetta, si affretta a ottenere il pignoramento dei beni del debitore e la loro vendita all’asta; non provvede neanche il necessario a coloro ai quali lo deve; non porta soldi in tasca per non perderli e per non fare elemosine.
Lavora anche di notte per sorvegliare ciò che possiede e difenderlo dai ladri; per non spendere, veste miseramente e mangia poco; va a piedi quando dovrebbe prendere un automezzo; si nega gli onesti sollievi; non chiama il medico perché si cura da sé; raziona l’acqua e l’energia elettrica; ritarda, diminuisce o nega la paga agli operai e la dote ai figli; lavora anche i giorni di festa, per guadagnare, e perciò non ha tempo né voglia di compiere i doveri religiosi; non vuol mai dire la parola “lascio” .
Pretende interessi molto alti quando impresta il denaro; ricevendo, subito stende la mano felice anche se incassa poco; vuoi essere pagato puntualmente e totalmente anche se gli altri vanno in rovina; conta e riconta le monete; ripassa le cifre; registra e confronta ripetutamente; ripone le somme nello scrigno con circospezione e senza aver dimenticato di accarezzarle a lungo.
Rinfaccia ai debitori che avrebbe guadagnato di più se avesse collocato altrove il suo denaro; compra merce rubata per averla a minor prezzo; inganna sul peso e sulla misura, sulla qualità e sulla provenienza della merce, anche a costo di spergiurare; profitta della fiducia o dell’ingenuità degli altri per acquistare o vendere a prezzo ingiusto; non paga i debiti o non li paga con la puntualità prestabilita; chiude i gioielli sotto serratura, ma non si fida delle chiavi; li rinchiude nel muro, ma non si accontenta delle sbarre; affida talvolta i soldi alle banche, ma diffida anche di esse.
Pur di raggiungere i suoi scopi, gesticola, grida, ruba; provoca liti; non rispetta le promesse fatte e le decisioni prese; viola il segreto promesso e giurato; minaccia vendetta; fa soffrire chi ostacola i suoi piani; e arriva anche al delitto.
I molti peccati inclusi nel vizio dell’avarizia: la menzogna, il furto, l’usura, l’inganno, la durezza di tratto con il prossimo, la frode, la perfidia, lo spergiuro, la violenza, il tradimento, l’indurimento del cuore contro la misericordia, il sospetto e giudizio temerario, la mancanza di delicatezza nella scelta dei mezzi, la inadempienza delle pratiche di pietà cristiana, la rapina, l’insensibilità per i beni spirituali! Anche il pagano Democrito diceva che: “l’avarizia è la metropoli di ogni furfanteria”.
Si capiscono questi peccati quando si pensa che l’avarizia è, secondo l’incisiva parola di san Paolo, “una idolatria” (Col 3,5). Gli avari difatti considerano la ricchezza unà divinità e ad essa praticamente trasferiscono il culto che è dovuto solo a Dio. Tengono il negozio o l’ufficio come una chiesa, la cassaforte come un idolo, il registro come un vangelo, le colonne di entrate e uscite come preghiere. Riservano alla ricchezza il pensiero di ogni giorno e il sogno di ogni notte. Adorano “il vitello d’oro” con lo spirito degli ebrei nel deserto. Rassomigliano ai sacrileghi filistei che posero sullo stesso altare l’Arca Santa di Dio e il loro idolo Dagone, mezzo uomo e mezzo pesce (1 Sam 5).
Ma Gesù ha detto chiaramente: “Nessun servo può servire (contemporaneamente) a due padroni (opposti), perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o si affezionerà al primo e disprezzerà il secondo. Non potete servire a Dio e al Denaro” (Le 16,13).
E non è poi difficile individuare le note che caratteinane la gravità dell’avarizia.
È un vizio sottilissimo. Si insinua in ognuno abilmente, si rende tanto più inavvertito quanto più è violento, si veste facilmente di virtù facendosi passare per previdenza, parsimonia, prudenza; trova incentivo in ogni vicenda della vita e sempre il pretesto per giustificarsi, soprattutto diventa più forte proprio quando l’età si fa più avanzata e le altre passioni declinano (1).
È un vizio universale. Investe non soltanto i ricchi ma anche i poveri, perché non consiste solo nel possedere molti beni ma pure nella brama smoderata di averne. Perciò chi non ha nulla, può essere tentato di desiderare viziosamente tutto. Si può essere proprietari senza essere avari, possedendo le cose come se non si possedessero; e si può essere avari senza essere proprietari, non possedendo nulla ma agognando sregolatamente tutto. Si può anche scrivere un libro contro l’avarizia e tuttavia dimostrarla praticata e preferita nella propria condotta (2).
È un avvilimento. Assoggetta l’uomo non a Dio o ai beni dell’anima o a quelli del corpo, ma ai beni terreni, che sono i più bassi; e questo asservimento comporta peggiore vergogna, non solo davanti a Dio ma anche davanti agli uomini. Afferma scultoriamente s. Agostino: “Ami Dio? Sei Dio. Ami la terra? Sei terra” (3).
È una schiavitù. Non c’è nulla di più personale e di più bello della libertà e, pur di conservarla o riacquistarla, si affronta qualsiasi sacrificio. Ma l’avaro la perde inesorabilmente facendosi schiavo dell’avarizia. Ogni schiavitù poi è umiliante, specie se volontaria, e tanto più umiliante quanto più vile e indegno è il tiranno al quale soggiace. Ora di chi è succube l’avaro? Delle cose. Non lui possiede le cose, ma le cose posseggono lui. Crederà talvolta di essere libero, ma si disilluderà presto, constatando quanto siano dure le catene che lo stringono nella morsa.
L’avarizia è incontentabile. L’acqua toglie la sete e il pane la fame, ma i beni terreni non dissetano e non sfamano l’avaro. Costui più ha, più vuole avere; e intanto non ha nulla, nemmeno quello che ha perché non lo usa. E come l’idropico che più beve, più ha sete. “L’avarizia non si spegne ottenendo le cose desiderate, ma cresce come il fuoco che, quando ha ricevuto la legna che consuma, si accende di più” (S. Gregorio) (4).
Il quadro diventa più fosco quando si considerano i danni derivanti da questo vizio.
L’avarizia rende difficile la conversione a Dio. È pieno di significati ciò che si nota nel Vangelo. Ad una parola o a uno sguardo o a un tocco di Gesù si ravvidero Giacomo e Giovanni, la Maddalena, la Samaritana, Pietro, Tommaso, il buon ladrone, ma non l’avaro Giuda al quale Gesù lavò i piedi e diede il dolce nome di amico. Anche il ricco giovane amato dal Signore si ritirò “triste perché aveva molti beni”, quando Gesù gli consigliò di lasciare le ricchezze per seguirlo, tanto che Gesù aggiunse: “È più facile a un cammello passare per la cruna di una ago che a un ricco entrare nel regno di Dio” (Mc 10,25).
Alcuni avari sono morti stringendo la borsa piena di monete tra le mani e sul cuore, o cercando di concludere affari, o girando in senso commerciale le buone parole che il sacerdote diceva per disporli al pentimento.
L’avarizia danneggia la società. Non fa circolare il denaro per mezzo dell’industria e del commercio, togliendo così lavoro e guadagno a lavoratori del braccio e della mente. Provoca contratti ingiusti, speculazioni disoneste, concorrenze sleali, peculati, estorsioni, concussioni, monopoli. Provoca anche miseria perché “è avaro non solo chi ruba le cose degli altri, ma anche chi per soverchio amore al suo non lo spende quando o la propria o l’altrui necessità lo ricerca” (S. Agostino). Chi possiede, deve in qualche modo dare a chi non ha: questa è legge di giustizia sociale, prima ancora che di carità. Nessuno è, assolutamente parlando, padrone assoluto di ciò che tiene soltanto per speciale disposizione di Dio, ma ne è semplicemente depositario, amministratore, distributore. Chi pertanto agisce con avarizia è il consumatore più improduttivo della società.
L’avarizia si attira la derisione. Neanche i parenti più vicini sentono stima o compassione per l’avaro, neppure quelli che beneficeranno dell’eredità. Lo deridono come colui che non ha saputo pensare nemmeno al proprio giusto interesse, anzi ha fatto di tutto per andare contro se stesso nel più innaturale dei modi. Tutti gettano su di lui il ridicolo che autori come Plauto, Molière, Pananti, Trilussa hanno così beffardemente espresso nelle loro creazioni letterarie (5).
L’avarizia non rimane impunita. Ne è prova la crescente agitazione che l’avaro soffre nel corpo e nell’anima. Se dorme, si sveglia di tanto in tanto temendo che sopraggiungano i ladri o che passi l’ora di aprire il negozio o di portare gli operai al lavoro: quando veglia, fantastica pensando ai campi e ai mercati, alle compere e alle vendite, alla siccita e alla pioggia, al gelo e all’afa, sempre temendo di ricevere improvvisamente qualche danno. È magro per i troppi digiuni, stanco per i troppi lavori, ha il volto abitualmente pallido, tiene i nervi tesi, non sa assolutamente rassegnarsi al pensiero di dover lasciare con la morte i suoi cari beni, anzi proprio questo pensiero gli affretta l’ultimo giorno.
Ma l’avaro è agitato soprattutto nell’anima. Avverte il rimorso della coscienza, ma non sa spiegarsene il motivo, né cercare il rimedio per guarire. Non ammette nemmeno lontanamente di essere lo spilorcio che gli altri dicono, è convinto di non esserlo affatto, si riconosce semplicemente risparmiatore, provveditore delle necessità altrui, interessato giustamente… Ma intanto sente le monete pesargli addosso e scuoterlo, si accorge di non essere cercato dagli altri per amico, sospetta frodi e tradimenti; quando ha da levare un soldo dalla tasca, è come se dovesse togliersi gli occhi dalla faccia e il sangue dalle vene; capisce che qualcuno aspetta la sua morte per gettarsi sulla sua eredità; si suiciderebbe pure se potesse portare con sé al di là della morte le sue ricchezze.
Una lunga sofferenza! È stato giustamente osservato che l’avarizia non è un vizio, ma una follia, la più folle delle follie: possiede e non gode, fatica contro se stessa e a vantaggio degli altri, si crede ricca mentre è povera, sazia mentre è affamata; comporta tutte le preoccupazioni della ricchezza e tutti i tormenti della povertà. È il castigo di sé stessa.
E tuttavia è ben possibile rimarginare tante ferite con opportuni medicamenti, cioè imparando a staccare il cuore da tutti i beni terreni, a non sopravvalutare l’importanza del denaro, a fare elemosine, a sapersi contentare dei poco, ad arricchirsi soprattutto di beni spirituali, ad avere la più grande fiducia nella Divina Provvidenza.
Questi rimedi sono inclusi nella virtù direttamente opposta all’avarizia, ossia nella liberalità, che modera il desiderio dei beni materiali e inclina l’uomo ad usarli debitamente per sé e per gli altri.
Liberale è pertanto chi dà agli altri quanto bene materiale deve dare e lo dà anche sollecitamente, chi chiede agli altri soltanto ciò che gli spetta per giustizia o anche per convenienza, chi dà del suo con intelligenza e con Prudenza mirando più all’elevazione morale degli altri che alla loro comodità materiale, chi finisce con il dare più agli altri che a se stesso con l’esercizio delle opere di misericordia corporale.
La liberalità è dei ricchi e dei poveri: di Booz che benefica Rut dandole di quello che aveva in abbondanza, e della vedova del Vangelo che mette le due monete nella cassa per le offerte, privandosi del necessario.
La liberalità evita preoccupazioni inutili e ispira validi motivi di pace e di coraggio: “Meglio aver poco e goderlo nel timor di Dio che possedere un gran tesoro nell’ inquietudine. Meglio un piatto di verdura condita con affetto che un bue grasso con contorno d’odio” (Prov.15,16-17).
E sta anche scritto nella Bibbia: “Chi odia la cupidigia, si prolunga la vita” (Prov 28,16). Tante volte, la liberalità prende più di quanto lascia.
San Pio X mostrando le mani diceva: “La sinistra riceve, e la destra dà. Però è più quello che passa per la sinistra, che quello che passa per la destra. Se con una mano do, con l’altra ricevo molto di più”.
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1) Beethoven era dilaniato dall’ossessione di morir di fame e perciò non voleva spese, vestiva malissimo, si cibava di ceci e di fave. Malediva la stessa musica quando non gliela pagavano con il prezzo che voleva, e intercalava sempre più spesso ai suoi sospiri due parole: morte e denaro.
2) Sallustio e Seneca hanno scritto pagine bellissime sul distacco dalle ricchezze, ma essi per primi vi erano esageratamente attaccati e tutti lo sapevano!
3) Per risparmiare le spese del vitto, il musicista Amilcare Ponchielli giostrava in modo da farsi invitare a pranzo e poi, fingendo di avere dimenticato la data precisa, si presentava all’improvviso in casa dell’ospite qualche giorno prima. Quasi sempre accadeva che costui, pur trattenendolo a pranzo, gli ricordava che si era fissato un altro giorno per il pranzo, e Ponchielli pronto: “Non importa, verrò anche quel giorno”.
4) Fu promesso un premio al ragazzo che avesse saputo svolgere meglia il tema: ..Che faresti se avessi un milione?”. Lo ebbe colui che scrisse questa risposta: “Se avessi un milione, ne vorrei un altro”.
5) Rembrandt era avaro. I suoi discepoli dipingevano monete d’oro sul pavimento per prendersi il divertimento di vedere il loro maestro chinarsi sospirando a terra per raccoglierle.


LA LUSSURIA
“… ed egli, turbato, la segue
come un bue condotto a macello,
come un cervo caduto nel laccio
finché una saetta gli penetra il fegato,
come un uccello che si getta nella rete
e non sa che vi perde la vita…”
(Prov 7,22-23)
L’istinto sessuale innato nell’uomo e nella donna è di per sé un bene, essendo espressione della piena appartenenza reciproca dei coniugi nel matrimonio e mezzo voluto lal Creatore per la procreazione del genere umano. Ma diventa un male quando si sfoga nel disordine chiamato lussuria, che può essere definita così: “desiderio e godimento sfrenato del piacere venereo perseguito fuori del matrimonio o anche nel matrimonio ma in modo da evitare la prole”.
Essa si esprime in forme diverse, come fornicazione, concubinato, prostituzione, adulterio, stupro, ratto, incesto, sacrilegio carnale, polluzione, sodomia, bestialità; e può arrivare a perversioni come omosessualità, sadismo, masochismo, feticismo, travestitismo, transessualismo.
Domina talmente colui che rende suo schiavo da essere per lui il pensiero del giorno e il sogno della notte. Difatti il lussurioso pensa abitualmente alle soddisfazioni della carne, le vede dappertutto e le ricostruisce con la fantasia; trascinato dall’impeto della passione ad agire senza ponderazione, non si domanda nemmeno quali pericoli gli possano derivare da ciò che va facendo; non cerca i mezzi necessari per formarsi un retto giudizio sugli stimoli che sente; non rispetta nell’azione che compie le più elementari norme di prudenza che gli schiavi degli altri vizi pur osservano in qualche modo; ascolta esaltandosi i discorsi licenziosi, legge la stampa immorale, preferisce le trasmissioni radiofoniche e televisive che stuzzicano i bassi istinti; anche se talvolta concepisce il proposito di non ricadere nel male, non lo mantiene e ritorna inesorabilmente alle colpe, delle quali non misura più la gravità, non conta più il numero e non distingue più le circostanze; vede la donna, ogni donna esclusivamente come termine di sfogo e oggetto di trastullo; alle parole aggiunge i gesti per alludere ai piaceri della carne; ama ardentemente il suo corpo che vuole appagare in tutti i sensi senza stancarsi; non si trattiene dal peggio neanche dinanzi al pericolo di perdere i beni, l’onore e la salute.
Non pensa affatto alle necessità dell’anima e, quando sente parlare di religione o di morale o deU’oltretomba, ride beffardo e poi, sempre più sfacciatamente, schernisce Dio diventando a poco a poco il più sfrontato incredulo; vive attaccato ai diletti del senso che non vorrebbe veder finiti nemmeno con la morte; non vede gli esempi di virtù che pur sono attorno a lui; è depravato, imbestialito, più terreno della terra.
In questa catena di peccati sono ben riconoscibili il turpiloquio, l’infedeltà coniugale, la precipitazione nel fare, l’egoismo, lo scandalo, l’abbandono delle pratiche religiose, l’avversione contro Dio, il disprezzo per la vita futura, l’invidia contro il rivale, il disgusto delle cose celesti, la perdita della Fede.
La lussuria precipita così in basso perché racchiude ma malizia tutta speciale.
È l’idolatria della carne. A questa difatti rimanda imperiosamente pensieri, parole, affetti, corpo, anima, insomma tutto l’essere e in modo intimo, peccando contro due comandamenti della legge di Dio che ammoniscono: “Non fornicare” e “Non desiderare la donna d’altri”. “Vizio in cuore è idolo sull’altare” (S. Girolamo).
È una profanazione. Gli altri peccati sono fuori del corpo e quindi non lo macchiano, al contrario la lussuria è nel corpo, lo contamina e ne profana la santità acquisita con l’uso dei sacramenti, deturpa l’immagine di Dio insita nel corpo, prostituisce le membra di Cristo, quali sono quelle del cristiano, per farne le membra di una persona corrotta, operando peggio di quei sacrileghi che trasformarono in uso profano i vasi consacrati per il culto da rendere a Dio. È profanazione della propria e dell’altrui persona, che è sacra e degna del massimo rispetto.
È il rovesciamento dell’ordine stabilito da Dio. Il corpo deve essere soggetto all’anima, e il fomite della concupiscenza alla ragione; e invece la lussuria sottomette l’anima al corpo e la ragione alla concupiscenza. L’ordine è che l’istinto sessuale obbedisca allo spirito, sia diretto allo scopo della procreazione e trovi soddisfacimento soltanto nel matrimonio; ma la lussuria si scapriccia andando contro questa regola e formando così il disordine più stridente che rende vano il fine per cui Dio ha creato i due sessi.
Balza subito all’occhio la gravità di questo vizio.
È il più facile a contrarsi. Basta un gesto, una parola, uno sguardo, un pensiero, una compiacenza interna per arrivare alla colpa. Può sorprendere l’anima più attenta. anche in un ambiente sacro. pure sotto la stretta del dolore, anche nell’incombenza di un disastro. Nessun peccato arriva così facilmente e rapidamente a diventare vizio come la lussuria.
È il più comune. È ben possibile a qualsiasi tenore di vita, a qualunque categoria sociale, ad ogni età. Non c’è nessuno il quale possa fare a meno di dire le parole di san Paolo: “… Vedo nelle mie membra un’altra legge che lotta contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7,22-24).
È il più difficile da correggere. Una volta messi su questa china, si deve fare gran fatica per risalire alla cima. La cattiva abitudine esercita sul lussurioso un potere crescente che lo porta là dove egli non vorrebbe arrivare. S. Agostino ha confessato di aver combattuto dodici anni per rintuzzare certe tendenze.
È il più dispotico. Lo stesso s. Agostino ha scritto: “La lussuria, simile a una crudele regina, stendeva su di me il suo scettro dominatore e io le consegnavo tutte e due le mani perché potesse legarmele”. Anzi ha confessato di aver detto a Dio: “Ti avevo chiesto la purezza con queste parole: Dammi purezza, ma non ora. Avevo paura che Tu mi esaudissi troppo presto, e troppo presto mi guarissi dalla malattia della sensualità: preferivo sfogarla più che spegnerla” (Conf 8,7). Ogni vizio ha il suo trono in mezzo alla società, ma nessun trono è così alto come quello della lussuria. Ogni vizio conta molto schiavi, ma gli schiavi della lussuria sono molti più numerosi.
È il più scandaloso. Ha sugli altri peccati un fascinodi seduzione al quale difficilmente si resiste, rende più prepotenti le tentazioni d’altro genere, indebolisce la resistenza di chi vorrebbe sottrarsi al male, aumenta la corruzione del mondo, contribuisce a formare un’opinione pubblica con idee moralmente errate, specialmente tramite gli strumenti della comunicazione sociale: stampa, cinema, radio, televisione, disco ecc.
È il più disonorante. Quante volte si cerca la solitudine e il buio per non farsi vedere mentre ci si dà a questo vizio! Per quanto lo si voglia nascondere, il rossore appare sempre sul viso e il tremito nella voce. Si preparano in anticipo le scuse per dire di non aver commesso II fatto. E quando poi non si può fare a meno di confessare, si cerca di minimizzare tutto.
Non devono pertanto apparire esagerati i giudizi con i quali la Sacra Scrittura e la dottrina cristiana bollano la lussuria. Veramente nessuna parola è abbastanza forte per dirne tutta la gravità, e anche quando se ne è detto tutto il male possibile, non si è detto ancora abbastanza.
Tale affermazione riceve maggior forza dalla considerazione dei danni prodotti da questo vizio.
Rovina la salute. Genera difatti non poche malattie (una ventina) e molto vergognose, anche a distanza di anni dalla comparsa del bacillo, e le trasmette anche per eredità. Miete da sola più vittime che la peste e il colera messi insieme. È dunque tutt’altro che una esuberanza vitale, tutt’altro che una superlativa efficienza fisica. “Cammina verso prematura scomparsa e va verso il regno dei morti” (Prav 2,18) (1).
Abbrutisce l’anima e il corpo. Li rende sofferenti di malattie psicosomatiche che allarmano i più abili psichiatri, spegne la fantasia, ottenebra l’intelligenza, snerva la volontà, toglie la bellezza, sottrae il gusto della cose spirituali, rende incapaci dell’autentico amore (2).
Uccide il sentimento religioso, come ben sanno i nemici di Dio e della Chiesa che ripetono con Voltaire: “La nostra speranza si fonda sulla voluttà. Affoghiamo il cristianesimo nel fango”; può condurre alla perdita della Fede, e anche all’impenitenza finale, come disse Lutero alla compagna che voleva tornare sulla retta via: “È troppo tardi, il carro è troppo affondato nel fango e questo tenor di vita non si cambia”.
Danneggia la società provocando matrimoni infelici, unioni irregolari, figli abbandonati, interessi calpestati, carriere stroncate, dolori aggravati, criminalità crescente. L’atto dal quale sorge la vita, è troppo importante per essere trattato con leggerezza: se bene posto, favorisce 0gnuno e tutti; se posto male, è nocivo non solo a chi lo pone così, ma anche agli altri.
Non deve quindi far meraviglia se Dio punisce la lussuria. Essendo Egli Spirito purissimo e semplicissimo, non può non avere avversione verso chi, fattosi tutto carne, sprofonda nella materia più bestiale. San Filippo Neri si turava le narici con il fazzoletto quando incontrava donne disoneste, e san Giovanni Bosco soffriva conati di vomito ascoltando le colpe d’impurità dei giovani: che cosa immaginare in Dio? Egli non può rimanere indifferente dinanzi a chi contamina il corpo che è sua creazione e l’anima che è sua immagine. Essendo la lussuria vizio dei sensi, Egli la punisce anche nel corpo. “E alla fine Dio porrà un termine al fuoco della passione cattiva con il fuoco dell’inferno” (S. Bernardo). “All’Inferno si va o per questo peccato o non senza questo peccato” (S. Alfonso).
È allora per tutti urgentemente necessano correre ai ripari, vale a dire fuggire le occasioni di peccato subito, lontano e sempre; mortificare i sensi e soprattutto il cuore, evitare l’eccessiva familiarità con persone d’altro sesso, stare sempre occupati, in una parola praticare la castità che modera il desiderio e l’uso del piacere sessuale e segna la vittoria dello spirito sulla materia.
Essa è un dovere per tutti, anche se non obbliga tutti nella stessa misura, potendo essere verginale, coniugale e vedovile. È la virtù difficile per l’impegno che continuamente esige contro le tentazioni sempre risorgenti e in agguato. È la virtù delicata che si appanna al più lieve alito. È la virtù fragile che può appassire al minimo tocco. È la virtù bella perché conferisce all’anima e talvolta anche al corpo una luce superiore alla quale tutti si inchinano; È la virtù forte perché capace di così alti ardimenti che i disonesti non sognano nemmeno. È la virtù eroica perché il conservarla equivale al martirio, tanto che nella sua più alta espressione, ossia nella verginità, è data come consiglio, essendo troppo sublime per essere comandata. È la virtù completa in quanto risiede in tutta la persona, cioè nel corpo e nell’anima, non potendo alcuno essere veramente casto se non lo è in tutti i sensi e in tutte le facoltà. È la virtù angelica che rende simili agli angeli e in un certo senso superiori ad essi che non hanno carne né tentazioni.
La castità è forza al corpo e allo spirito, è libertà, gioia, vittoria; in particolare fa bene alla salute per l’ordine e l’armonia che porta in sé. È virtù sociale, necessaria alla vita del genere umano. È ben possibile anche oggi a qualunque livello, nonostante l’attuale, immensa corruzione del mondo. È stimata anche oggi e più di quanto si possa credere a prima vista, tanto che pure chi non è religioso, arriva a dire con le parole di Jules Renard: “Se la castità non è una virtù, è però certo una forza”; e con le parole di San Francesco di Sales: “Questa virtù si chiama anche onestà e il praticarla si chiama onore”.
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1) Calvino “fu contrassegnato sul dorso da vergognose stimmate a causa delle passioni libertine alle quali si abbandonava” (Conrad) ed ebbe un’ulcera così puzzolente che nessuno poteva sopportarne il fetore.
2) Appariva angelo Pietro Bandinelli quando Leonardo da Vinci lo scoprì giovinetto cantore in chiesa e di lui si servì per dipingere il volto di Gesù nell’Ultima Cena; ma dieci anni dopo lo stesso Pietro ritrovato in una bettola servì a Leonardo per fare la figura di Giuda, tanto era stato trasformato dalla lussuria.


L’IRA
“…sbattendo il latte
se ne ricava il burro;
picchiando con il naso, ne esce il sangue;
e premendo l’ira, ne scoppia la rissa”
(Prov 30,33)
La superbia, l’avarizia e la lussuria finora considerate, e così pure la gola, l’invidia e l’accidia che poi esamineremo, sono passioni viziose in se stesse; non però l’ira che troviamo al quarto posto nel tradizionale elenco dei vizi capitali, quasi ad indicare che è al centro di essi, e con tratti caratteristici che la rendono differente dagli altri vizi.
Facoltà naturale dell’animo, non è altro, in genere, che un impulso a reagire contro una persona o cosa che è stata contraria e ha fatto soffrire. È destinata, in partenza, ad affrontare e superare energicamente le difficoltà anche più ardue, addirittura necessaria a ognuno per conservarsi e difendersi da quello che gli è ostile.
C’è dunque, certamente, un’ira buona, ed è tale quando proviene da un motivo ragionevole, tende a un fine onesto e non oltrepassa la moderazione conveniente.
Motivo ragionevole può essere impedire un’offesa a Dio, correggere un errore del prossimo specie se sottoposto, evitare un danno ingiusto, specialmente quando non sono bastate le buone maniere.
Fine onesto può essere far conoscere la bruttezza del peccato e la bellezza della virtù, ristabilire l’ordine turbato, emendare il colpevole, aiutare il prossimo, salvaguardare la giustizia.
Moderazione conveniente è quella che esclude ogni esagerazione e irruenza, limitandosi alla giusta misura e ai mezzi permessi.
Così fatta, l’ira è un appoggio alle altre virtù, anzi è una virtù che con termine più appropriato si chiama zelo. Essa vince, per esempio, l’accidia; ad essa si riferisce, san Paolo con le parole: “Se vi adirate, guardatevi dal peccare” (Ef 4,26). Non è ardente l’amore di chi non sa adirarsi.
Ne hanno dato prova i Santi. Mosé, sdegnato per il ritorno all’idolatria degli ebrei, spezzò le tavole dei dieci comandamenti, bruciò il vitello d’oro e comandò ai leviti di uccidere quelli che incontrassero (Es 32). Gesù Cristo con sferzate cacciò dal tempio i profanatori rovesciandone i banchi e le merci (Gv 2,15-17), maledisse l’albero di fico privo di frutti (Mc 11,14), e rimproverando i farisei, “li guardava, torno torno, con indignazione” (Mc 3,5).
San Tommaso d’Aquino, giovane di sedici anni, con il tizzone di fuoco avrebbe bruciato la faccia alla donna tentatrice se costei non fosse scappata subito. San Bernardino da Siena, giovinetto, affibiò un sonoro schiaffo al compagno che aveva proferito una parola maliziosa dicendogli: “Un sì brutto parlare merita un sì franco gestire!”. Santa Zita graffiò la faccia, tanto da lasciarvi il segno per alcuni giorni, al servitore sfacciato che aveva attentato al suo pudore.
L’ira buona brilla nei genitori e nei superiori che con la dovuta energia correggono i figli e gli inferiori per distoglierli dalle cattive abitudini e ricondurli a quelle buone. È del resto dovere anche di chi non è genitore o superiore collaborare secondo la propria competenza al culto della giustizia, e anche con una certa forza. L’ira buona è anche una virtù sociale. È compatibile con l’amore verso chi pecca, riconosciuto creatura di Dio e fratello in Cristo. “Chi non si sdegna quando c’è motivo, pecca. Una pazienza irragionevole semina i vizi, favorisce la negligenza e sembra indurre al male non solo i cattivi ma anche i buoni” (S. Giovanni Crisostomo). Dunque “non sempre chi si arrabbia, ha torto; il vile non va mai in collera” (Tommaseo).
Anzi il non adirarsi quando si deve, merita rimprovero e castigo. Ne è esempio il pontefice Eli che non seppe reprimere con la necessaria fermezza i due figli, i quali rubavano le offerte date a Dio dal popolo, rendendosi così, per debolezza, complice delle loro colpe; e per questo fu abbandonato dal Signore che gli tolse la dignità di capo spirituale di Israele (1 Sam 2).
Pertanto “il non adirarsi quando si dovrebbe è peccato, ma l’adirarsi più del dovere è doppio peccato” (S. Bernardo). Esiste anche, purtroppo, l’ira cattiva, cioè quella forte emozione dell’animo che porta a respingere con violenza le persone o cose che fanno soffrire, a odiarle e a vendicarsene. Essa non esplode, ordinariamente, tutta d’un colpo, ma passa per diversi gradi di male in peggio e si chiama perciò anche con nomi diversi. All’inizio è un semplice moto di impazienza o stato di malumore per la prima contrarietà subita; poi diventa impeto di collera per il quale ci si irrita oltre misura e si esterna il proprio rammarico con gesti disordinati; talvolta giunge alla violenza con sfogo di parole e di colpi; può anche arrivare al furore durante il quale l’iracondo non si controlla più e sembra diventato pazzo; infine trascende nell’odio che pretende e prepara la vendetta per il solo piacere di fare del male.
Si può peccar d’ira per la vendetta che si compie e per il modo di vendicarsi.
Pecca per vendetta chi si indigna contro le cose materiali e contro gli animali, perché quelle e questi non possono capire il male che fanno e perché è lecito adirarsi soltanto con gli esseri ragionevoli che hanno agito con cattiva intenzione; chi augura un male a colui che non lo merita, difatti è contro ogni regola trattar male l’innocente; chi desidera per il colpevole un male più grave di quello che egli merita, giacché la pena deve essere proporzionata alla colpa; chi, pur invocando il giusto castigo per il reo, vorrebbe infliggerglielo di propria iniziativa, poiché il fare giustizia spetta solo alla pubblica autorità competente; chi, pur volendo la giusta punizione e la legittima autorità, non si prefigge il fine onesto, ma lo sfogo di qualche cattiva passione.
Si pecca poi per il modo di vendicarsi quando ci si adira prima del tempo, cioè prima di sapere se c’è il motivo, perché non si può giudicare se prima non si esamina; quando per ogni piccolo torto ricevuto ci si abbandona a scenate e si ritorna sullo stesso anche dopo che il colpevole si è pentito e ha riparato, infatti ogni torto si intende finito dopo che è stato riparato; quando non si distinguono più gli innocenti dai colpevoli e li si colpisce egualmente tutti, giacché il castigo va dato solo ai colpevoli come il premio solo agli innocenti; quando si conserva l’ira più lungo tempo di quanto sia consentito e non si è mai disposti a far pace, perché non è lecito far nascere e cullarsi in cuore una pericolosa tentazione.
Cattiva dunque l’ira dei nazaretani della sinagoga che “all’udire queste parole (di Gesù)… si sentirono pieni di sdegno e, levatisi, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sopra una rupe del colle sul quale la loro città era edificata, per precipitarlo di sotto” (Lc 4,28-29). Cattiva l’ira di Caifa che riferendosi a Gesù “si stracciò le vesti dicendo: Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo di testimoni? Ecco, voi avete sentito ora la sua bestemmia. Che ve ne pare? E quelli risposero: E reo di morte” (Mt 26,65-66).
Ma osserviamo l’iracondo da vicino! Eccolo scattare alla prima contraddizione, accendersi facilmente ed esplodere; suda, trema, spalanca gli occhi ripieni di sangue sotto le ciglia rialzate e allargate, cammina su e giù nervosamente, è rosso in viso per il caldo rimescolamento del sangue mentre la fronte gli si contrae in vistose solcature; respira più celermente, digrigna i denti, gesticola violentemente; stringe il pugno pensando a un nemico lontano; si dà pugni in testa; getta via con dispetto ciò che ha per mano; morde gli oggetti o li prende a calci; o non riesce ad articolare sillabe o grida non sapendo che cosa fa e dice; parla anche agli assenti dando botte e risposte; vede ingrandite le offese fattegli e vede pure le offese che nessuno gli ha fatto; anche se si è soddisfatto vendicandosi, non trova pace e ritorna più disgustato e più malinconico di prima; bestemmia e impreca; punge, morde e minaccia; aggredisce sino a ferire e uccidere chi gli si oppone; investe nella sua furia gli animali, gli amici e anche i familiari finché non è prostrato dalla sua debolezza o dalla forza degli altri; e finisce talvolta con il ferire o uccidere anche se stesso.
Tutto ciò è quello che pittorescamente si chiama “uscir dal manico”,”perdere le staffe”,”andar fuori dai gangheri”, “perdere la tramontana”, “essere matto come la luna”. Vi è però anche l’iracondo capace di non alzare la voce e di non sbattere oggetti e, così tacendo, capace di rimuginare il proprio tormento e preparare segretamente la vendetta, con il gelo sulle labbra: nasconde i suoi sentimenti mentre vi si immerge più profondamente.
Quanti peccati in quest’ira! Anzitutto nella mente: l’adirato, pensando all’ingiuria, vera o supposta, che ha ricevuta, la ingrossa e nello stesso tempo disprezza chi gliela ha inflitta considerandolo indegno, ed ecco il peccato dell’indignazione. Studia tutti i modi possibili e immaginabili per vendicarsi e con questi pensieri si gonfia sino a prodursi un’alterazione della mente che si pasce di sospetti e giudizi temerari, di intenzioni e trovate cattive.
Peccati con le labbra: l’iracondo se la prende direttamente con Dio che permette l’ingiuria e lo bestemmia; si sfoga contro il prossimo che l’ha offeso prorompendo in parole come queste: “me la pagherà”, “mi cadrà sotto, una volta o l’altra”, “lo aspetto a quel punto là”, “gliela farò bere io”. Ha quel parlare rumoroso e copioso che si chiama clamore.
Peccati nelle opere: sdegno, impazienze, inimicizie, separazioni, percosse, ferite, omicidi, guerre e disgrazie d’ogni genere, che nel loro passaggio travolgono cose, animali e persone, come dice la Sacra Scrittura: “L’uomo collerico fa nascere contese e l’impulsivo moltiplica i suoi falli” (Prov 29,22).
E la malizia sta tutta in una offesa a Dio e al prossino. L’ira offende Dio, perché contrasta con il Suo attributo di Signore della pace e dell’amore (2 Coro 13,11), disobbedisce ai Suoi comandamenti che dicono di sopportare, perdonare e amare anche i nemici, usurpa il Suo diritto di giudicare e punire le creature, e disprezza il dono dell’intelligenza che Egli ha elargito all’uomo perché agisca con la luce della ragione. Dio è amore mentre l’ira è odio. Dio vuole soltanto il bene mentre l’ira vuole soltanto il male.
lnoltre l’ira offende il prossimo perché contraria alla carità fraterna che deve unire tutti secondo il comando del Signore per l’utilità di ognuno, avendo fatto Dio l’uno per l’altro e tutti per Lui, ed essendo ognuno immagine di Dio e redento da Cristo. Ora quale amore e quale aiuto può dare o meritare un iracondo? Il Signore ha comandato: “Non adirarti con il tuo prossimo” (Sir 28,7).
Non è difficile allora valutare quanto sia grave questo vizio. L’ira degrada l’uomo al livello della bestia perché gli toglie la ragione e la bella configurazione del volto che è un riflesso della luce dell’anima. È un segno di acerbità, è irragionevolezza, il non voler ragionare, un infantilismo. Ci si domanda se l’ira sia un vizio più detestabile o più stomachevole. I pedagoghi mettono dinanzi allo specchio i loro educandi irosi perché vedano con i propri occhi l’alterazione della propria faccia. Altrettanto fanno i medici con i loro malati. Non a caso si dice che l’iracondo va in bestia. Talmente non ragiona che litiga e persino uccide per cose insignificanti: per es., come riferisce la cronaca dei giornali, per un metro di terra, per un debito di poche lire, per uno sbaglio di qualche chilo, per un ritardo di pochi minuti, per l’abuso di pochi pezzi di legno! Ed è talmente brutto sotto l’esplosione della rabbia che, visto una volta, lo si ricorda sempre come un animale!
Non è facile però valutare i danni che l’ira provoca, tanto essi sono numerosi e gravi.
Rovina la salute. E difatti toglie l’appetito, guasta la digestione, impedisce il sonno, gonfia le arterie, aumenta il fiele, provoca calcoli ai reni e al fegato, ulcerazioni allo stomaco e all’intestino e, non raramente, la morte più o meno improvvisa.
Toglie la pace con il prossimo. L’uomo è nato per vivere in società alla quale dà qualcosa di se stesso e dalla quale riceve più di quanto egli le dia. Ma come potrà avvenire questo scambio così naturale e così utile se si intromette l’ira? Questa non fa che suscitare processi, querele, separazioni, dispute, violenze, tradimenti e altri mali. Non ha rispetto per l’autorità, non affabilità per l’amicizia, non riguardo per la vecchiaia, non gratitudine per la beneficenza, non affetto per la parentela, non comprensione per l’indigenza.
È naturale perciò che tutti schivino l’iracondo e lo lascino solo. “Meglio abitare nel deserto che con una donna irosa” (Prov 21, 19) dice la Bibbia. E chi vuol rimanere vicino a uno che scatta e investe al minimo sgarbo? “Carbone sulla brace e legna sul fuoco, tale è il litigante per eccitare la rissa” (Prav 26,21).
Quale spettacolo, però! Persino il diavolo va d’accordo con i diavoli, ma non l’iracondo con gli altri uomini.
L’ira toglie la pace all’intimo di noi stessi. Dice Ugo di san Vittore: “Per la superbia, perdo la pace con Dio; per l’invidia, perdo la pace con il prossimo; e per l’ira, perdo la pace con me stesso”. Tutto l’essere del collerico infatti è teatro di una agitazione che lo scuote dalla testa ai piedi, sotto lo scontro delle emozioni. “Quando l’iroso ha finito di adirarsi con gli altri, si adira con se stesso” (Seneca). Non illudono neanche gli intervalli di quiete che l’iracondo sembra godere. “Siccome non si può ruggire dalla mattina alla sera per settimane e l’anima più nata dal furore ha di necessità i suoi intervalli di riposo, quegli intervalli sogliono risentire dell’immoralità che li ha preceduti. Allora sembra di essere in pace, ma è una pace maligna, irreligiosa; è un sorriso selvaggio, senza carità e senza dignità; un amore di disordine, di ebbrezza e di scherno” (Pellico).
In realtà, chi più cede all’ira, più si danneggia: perde anche quello che ha di buono.
“Dove semina l’ira, il pentimento miete” (Manzoni), ma anche germogliano i castighi. Il primo di questi è lo stato di depressione morale nel quale l’iracondo è immerso e dal quale non riesce a risalire; seguono poi i castighi che riguardano i beni, le cose e i rapporti con la società. Risuonano sempre attuali le parole di Gesù: “Chiunque va in collera con suo fratello, sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello “stupido” sarà condannato nel sinedrio, e chi gli avrà detto “empio” sarà condannato al fuoco della Geenna” (Mt 5,22).
Ma, per fortuna, ci sono i rimedi anche per questo vizio. Non si devono trascurare i rimedi igienici, raccomandabili sono i mezzi distensivi, indispensabili sono però i rimedi di ordine spirituale, tra i quali soprattutto questi: non vergognarsi di annullare la parola detta per ira, affrettarsi a riparare le offese fatte agli altri, sforzarsi di dimenticare le offese ricevute, abituarsi ad accogliere qualsiasi vicenda con calma, non frequentare gli iracondi, cercare di prevedere le occasioni d’ira e prepararsi ad evitarle o a superarle, cercare di frenare subito il primo impulso rabbioso, tacere o almeno non agire finché dura l’agitazione, risolvere i contrasti più con la dolcezza che con la forza, convincersi che la vendetta è un male controproducente, correggere con calma.
Tutti questi rimedi si compendiano e si ritrovano nella mansuetudine, che non è viltà né pecoraggine né paura né diserzione dal dovere né passività né acquiescenza al male, ma è la virtù che impedisce di adirarsi senza motivo, fa rimanere calmi anche se si ha motivo di adirarsi, non fa oltrepassare i limiti della moderazione quando c’è il dovere di adirarsi, non proibisce la punizione del colpevole ma il ricambio del male con il male, non vieta di cercare la riparazione delle offese ricevute ma di cercarla per sfogo di cattiva passione.
È la virtù illustrata da molti Santi. I primi indiani di Macao che san Francesco Saverio convertì con la sua mitezza e battezzò, furono quei due che l’avevano preso a sassate per farlo indignare e per impedirgli di predicare. San Giovanni Gualberto, per aver perdonato e baciato l’uccisore di suo fratello che egli poco prima avrebbe voluto uccidere, meritò che l’austero Crocifisso della chiesa di s. Miniato in Firenze piegasse la testa verso di lui in segno di approvazione. A san Francesco di Sales furono trovate, dopo morte, trecento pietruzze nella vescica del fiele, segno degli innumerevoli sforzi fatti per frenare l’ira.
La mansuetudine ha un valore incalcolabile: “vale più l’uomo paziente che un eroe, più chi è padrone di sé che un conquistatore di città” (Prov 16,32). Ed essa riporta una tale vittoria che “umilia più l’altrui superbia che non l’umilierebbe la più fulminea eloquenza dell’ira e dello spregio” (Pellico).


LA GOLA

“Ma ecco la festa e l’allegria,
l’ammazzar di buoi, e lo scannar di pecore,
saziarsi di vivande e ubriacarsi di vino:
“Mangiamo e beviamo, che domani si muore”.
Ma il Signore degli eserciti
ha rivelato alle mie orecchie
che questo peccato non vi sarà rimesso
fino alla vostra morte” (Is 22,13-14)
Mangiare e bere sono una necessità per la vita del corpo e la sua salute; un dovere tanto che commette peccato di suicidio chi di proposito non si nutre; un piacere avendo il Creatore unito ad essi un allettamento che aiutasse a conservare le forze; una bellezza quando servono a rinsaldare un buon legame o a celebrare un avvenimento o a dimostrare una gioia; un bene quando sono contenuti nella retta misura, cioè in quella che sta non al di sotto del limite minimo voluto dall’igiene e non al di sopra del limite massimo dannoso all’organismo.
Tuttavia il mangiare e bere diventano vizio (detto di gola dal nome del senso che si soddisfa alimentandosi) quando sono ricercati solo per il piacere da essi dato, desiderati e usati oltre il giusto limite. È un vizio ben frequente nella nostra epoca per l’aumentato numero di agi, di tempo libero, di cibi e di lusso insistentemente illustrati dagli strumenti della comunicazione sociale, nonostante che due terzi dell’umanità siano oggi denutriti o malnutriti, si muoia di fame e di sete in molte regioni dell’ Africa e dell’ Asia, non ci sia in certi paesi neanche la carta da masticare. È un vizio così sottile che può averlo anche un povero, consistendo esso non solo nell’abusare del piacere insito nei cibi e nelle bevande, ma anche nel desiderare eccessivamente questo piacere.
È un vizio che anche tra i buoni pochi si riconoscono e pochissimi se ne accusano, tanto che s. Agostino ha potuto dire: “Tu, o mio Dio, mi hai insegnato a prendere gli alimenti come rimedi. Signore, chi di noi non ne oltrepassa talvolta il limite? Se ce n’è uno, io dico che costui è grande e deve glorificare grandemente il tuo nome” (Conf. X, 31). E il limite è oltrepassato quando si prova più piacere nel mangIare e nel bere che in cose più nobili, quando non si parla d’altro che di tavole imbandite.
Pecca per la quantità chi mangia e beve più del necessario o del conveniente per la salute, come se avesse un tubo digerente più lungo degli altri e non avesse più sostentamento per l’avvenire, e si alza dalla mensa appesantito, incapace di camminare svelto, bisognoso di riposo, esposto a vomitare.
Peccano per la qualità coloro che cercano insistentemente bevande e cibi troppo squisiti o troppo rari o comunque superiori alle possibilità della propria condizione sociale; oppure accettano i cibi comuni purché cucinati e conditi con esagerata ricercatezza di ingredienti, mirando così non solo a nutrirsi ma anche e soprattutto ad accontentare il gusto con il massimo possibile della raffinatezza.
Pecca per il modo chi mangia e beve con voracità come i cani, i quali non mangiano ma divorano, non bevono ma tracannano; oppure prende i graditissimi cibi da solo, in silenzio, con raccoglimento, lentamente, per gustadi più profondamente e il più a lungo possibile.
Peccano per il tempo quelli che mangiano e bevono non solo nelle ore fissate per i pasti, ma anche ad ogni occasione possibile; e non per appetito, ma per golosità o fittizio bisogno provocato dal disordine; oppure rimangono a tavola troppo a lungo mostrandosi attaccati al cucchiaio e al bicchiere.
Pecca per il fine chi si ciba come se non avesse al mondo altra preoccupazione oltre quella di riempirsi il ventre, cioè chi ha per primo, anzi unico scopo l’appagamento del gusto, non mangiando per vivere ma vivendo per mangiare, pronto a morire se dovesse rinunciare a mangiare e bere, più pronto a morire se dopo la morte potesse mangiare e bere meglio, indifferente al vivere senza l’uso della ragione purché satollo e ubriaco.
Ed ecco come agisce chi la pensa così: cammina storto, ora balbetta ora canta, stravolge gli occhi, parla ai muri e ai quadri come se fossero persone, vomita, respira irregolarmente, fa rumore con le narici, scambia una cosa per l’altra, talvolta ride talvolta piange, non connette più le idee, protesta se qualcuno gli toglie il piatto o la bottiglia, si sveste più che può, chiede e richiede vivande, inveisce contro i presenti perché non lo capiscono, prova a leggere ma non ce la fa, sente rumore nelle orecchie, fissa la terra come se questa si muovesse; bestemmia, dice e fa cose sconce, trascura i doveri della propria professione, rivela segreti che non devono essere svelati, attacca brighe con piccoli e con grandi. con vicini e con lontani, si accascia a terra, impreca contro gli altri che invece di sollevarlo lo deridono, è incapace di alzarsi da solo, non vuole essere toccato da nessuno mentre lui vuol toccare tutto e tutti, viene derubato e non se ne accorge…
Quanti peccati in queste escandescenze! Ad esempio, lo spreco, l’ubriachezza, la bestemmia, la scurrilità, il turpiloquio, lo scandalo, la negligenza dei doveri del proprio stato, l’impudicizia, la discordia, la trasgressione delle leggi ecclesiastiche sul digiuno e sull’astinenza. Non esagera chi chiama la gola “la portinaia del diavolo”.
C’è malizia nel vizio della gola, più di quanto si creda a prima vista, perché tende a fare del ventre il proprio dio, ossia considera come fine il piacere messo dal Creatore nell’atto della nutrizione, escludendo quindi, recisamente, il bisogno di nutrirsi per vivere (1). Inoltre questo vizio va contro il precetto della penitenza al quale tutti sono tenuti per legge divina, essendo essa non un di più o una stravaganza, ma una necessità come il respirare. Mortificare la gola non è l’unico modo di far penitenza e nemmeno il più costoso, ma è certamente uno dei più necessari per l’importanza che ha nel combattere le tendenze cattive, uno dei più raccomandati dai consiglieri spirituali e uno dei più sentiti dai peccatori che vogliono espiare.
Grave il vizio della gola perché intimo di ognuno di noi, personale e quasi continuo per il fatto di trovarsi troppo presto nel bisogno di ristorare con nuovi cibi e nuove bevande il corpo debilitato. Lo si può mortificare, ma non uccidere; vincerlo, ma non estirparlo. E quante rovine provoca!
Mina la salute. Il primo organo a soffrire è lo stomaco, perché il troppo mangiare e bere non lo aiuta ad elaborare la digestione, ma lo dilata e irrita trasformandolo in un focolaio di umori nocivi. E poi il fegato si ingrossa, le vene si gonfiano, i reni si infiammano, il sangue si guasta, l’intestino si irrigidisce, il corpo si fa pesante e inetto al lavoro. Ed ecco stanchezze, nausee, vomiti, insonnie, dolori, paralisi e pure la morte. Non c’è nulla che più accorcia la vita e la aggravi quanto l’eccesso degli alimenti. Anche gli organismi più robusti cedono in poco tempo a questa intemperanza (2). Ne uccide più la gola che la spada, più l’intemperanza che la fame. Soprattutto all’alcool si devono gli inebetiti, i maniaci, gli allucinati, gli epilettici. “Tolta dal mondo ogni specie di intemperanza, verrebbero eliminate quasi tutte le malattie, e forse tutte” (De Maistre).
Questo vizio ottunde la mente. Insegna san Tommaso; “La stupidità della mente proviene massimamente dalla gola. A misura infatti che si riempie il ventre, l’intelligenza perde la sua chiarezza ed elasticità perché i grossi vapori del cibo e della bevanda salgono dallo stomaco ad offuscare il capo ed ingombrare il cervello, che è strumento dell’intelligenza e della ragione. Di conseguenza i crapuloni diventano d’ordinario stupidi, privi di memoria, incapaci di fare cose di importanza, impotenti persino a manifestare i loro sentimenti prima ancora di giungere alla vecchiaia”.
E la Bibbia ammonisce così l’ingordo: “I tuoi occhi vedranno cose strane e la tua bocca farà discorsi stravaganti: ti parrà di essere coricato in alto mare e di dormire in cima all’albero di una nave” (Prov 23,24).
Questo vizio provoca la lussuria. I vizi si richiamano e si incatenano a vicenda. Quando il ventre è carico di cibo, il fomite della concupiscenza diventa più prepotente, la fantasia si popola di fantasmi, il cuore straripa nell’esuberanza, i sensi cercano lo sfogo e, poichè l’intelligenza non ragiona e la volontà non frena, è inevitabile la caduta. Nulla trascina tanto alla lussuria quanto la golosità. Sarebbe davvero un prodigio se lussuria e golosità andassero separate, esse che sono i vizi più grossolani.
Soprattutto il troppo bere alcool scatena le bramosie sessuali, danneggia il patrimonio genetico nei discendenti, distrugge l’innocenza. San Girolamo diceva: “Non riuscirò a credere che una persona dedita al bere sia casta”. Tanto male dall’alcool che non è necessario come il cibo!
I vizio della gola allontana da Dio. Stare con Dio significa avere pensieri alti e nobili ed esprimerli con la preghiera e con le opere buone, ma il goloso ha soltanto pensieri bassi rivolti alla materia e alla sue soddisfazioni. Si allontana così da Dio e si avvicina alle bestie. Non sente il gusto delle cose spirituali, non ha voglia di pregare, non ha tempo di applicarsi alle opere di Religione, non ha interesse per la morale, non si preoccupa dell’eternità, non capisce gli eroismi di digiuno praticati dai Santi. Per lui il dio è l’appetito, l’altare è la mensa, il credo è l’abbondanza e il paradiso è la comodità.
Questo vizio impoverisce. Basti il giudizio della Sacra Scrittura: “Chi ama i lauti conviti, finirà in miseria; né sarà ricco chi ama vino e profumi” (Prov 21,17)…” Non andare con i bevitori e nemmeno con i crapuloni, perché il bevitore e il crapulone impoveriscono”. (Prov 23,30)… ”Non impoverirti con il prendere a prestito per fare conviti se non hai nulla nella borsa” (Sir 18,33).
E la storia racconta di madri che hanno venduto vesti e cibi dei loro figli per comprarsi liquori.
Il vizio della gola degrada inducendo a gesti addirittura bestiali personaggi pur rispettabili per altri versi (3).
Questi danni non si fermano alla persona del goloso e nemmeno alla cerchia di quanti gli stanno vicini o dipendono da lui, ma si estendono con minore o maggiore intensità a tutta la società. E sono essi stessi castighi che confermano nello spazio e nel tempo il monito di Gesù: “Guai a voi che ora siete sazi, perché poi soffrirete la fame”.
Quanto necessaria allora è la virtù della sobrietà che non solo evita il peggio ma assicura il meglio nell’uso dei cibi e delle bevande. Essa non comanda di mangiare e bere meno del bisogno, ma stabilisce i limiti del giusto o del conveniente da non valicare quando si mangia e si beve.
La quantità deve tener conto dell’organismo, dell’età, della stagione, del genere di lavoro, del rango sociale, del censo e di altre eventuali circostanze; essa non è la stessa per tutti e non sempre la stessa per la medesima persona, ma in ogni caso dev’essere moderata e ordinata a soddisfare il bisogno. La qualità non deve pretendere specialità oltre quello che è conveniente e adatto alle proprie condizioni particolari. Il tempo deve suggerire un orario che giovi nello stesso tempo alla salute e allo spirito religioso. Il modo deve evitare come la fretta così l’esagerata lentezza in modo da mangiare e bere con gusto, ma non per il gusto. Il fine deve essere quello di conservare e irrobustire le proprie forze per metterle al servizio di Dio nell’adempimento dei doveri del proprio stato.
La sobrietà non esclude il godimento del piacere annesso ai cibi dal buon Dio che ha tratto per l’uomo una così grande varietà di nutrimento dal regno vegetale e dal regno animale, purché questo piacere sia contenuto nei giusti confini segnati dalla ragione e confermati dalla Fede.
La sobrietà fa bene al corpo e all’anima: al corpo, in quanto rinvigorisce i sensi, rende tranquillo il sonno, fa trovare accettabili i cibi, facilita il lavoro, snellisce i movimenti, prolunga la vita; all’anima, in quanto impedisce i peccati, frena la concupiscenza, suggerisce la penitenza, ispira la preghiera prima e dopo i pasti, fa osservare le leggi della Chiesa sul digiuno e sull’astinenza, aiuta a sopportare la mancanza del necessario qualora questa si presenti.
La sobrietà ripete le parole di san Paolo: “I cibi sono per il ventre e il ventre è per i cibi; tuttavia Dio farà cessare l’uso dei primi e del secondo. Ma il corpo non è per la fornicazione, bensì per il Signore, e il Signore è per il corpo” (1 Cor 6,13).
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1) Il Duca di Clarence, fratello cadetto di Edoardo IV re d’Inghilterra, condannato a morte per i suoi complotti, ottenne come unica grazia la libertà di scegliersi il genere di morte. Essendo amatore incorreggibile di vini squisiti, chiese e ottenne di essere annegato in una botte di malvasia.
2) Il robustissimo Alessandro Magno morì giovane per le crapule; Settimio Severo morì ubriaco dopo un lungo pranzo; Skakespeare morì per aver bevuto troppo vino con gli amici, in una bettola; il poeta greco Filosseno moriva per indigestione di pesce e, pur moribondo, chiese insistentemente al medico di mangiare la parte avanzata del pesce.
3) Victor Hugo diceva di sé stesso: “La storia naturale conosce tre stomachi formidabili: il pescecane, lo struzzo e Victor Hugo”. Uno dei suoi esercizi era questo: si metteva in bocca un’arancia intera con la scorza, aggiungeva una decina di pezzi di zucchero e masticava il tutto in pochi minuti, poi spalancava la bocca per mostrare ai presenti che veramente aveva trangugiato tutto!


L’INVIDIA
“Se avete in cuore amara invidia…
non gloriatevi e non mentite contro la verità…
Dove c’è invidia… c’è pure disordine
e ogni sorta di male”
(Gc 3, 14-16)
L’invidia è il sentir dispiacere del bene altrui considerato falsamente ingiustizia e danno fatto a sé; e, di riflesso, è il sentir piacere della perdita del bene subita dagli altri, come se essa aumentasse il proprio bene. Questo stato d’animo si verifica, per definizione, quando chi invidia non ha determinati beni posseduti dalla persona invidiata, vorrebbe averli lui e, finché non li ha, si rattrista.
Però non sempre la tristezza per il bene altrui è peccato. Non dimostra invidia: chi ha dispiacere di vedersi privo di un bene notato nell’altro o di vedere l’altro in condizione di nuocergli perché provvisto di quel bene; chi prova tristezza per il fatto di essere meno dotato di beni che l’altro, senza tuttavia vedere di malocchio ciò che quello possiede; chi si indigna perché l’altro gode i beni sol perché non dà nulla agli altri pur essendovi obligato; chi non si rallegra del successo di uno per il fondato timore di danno alla causa della giustizia; chi si compiace del male altrui ritenuto giusta umiliazione inflitta al nemico di Dio, oppure mezzo adatto a convertire il peccatore.
Così pure non è invidia dolersi nel vedere ingiustamente elevata a un onore una persona indegna a scapito dei meritevoli, ma zelo. Non è invidia rammaricarsi dell’abuso dei beni che l’altro fa trasformandoli in peccati e danneggiamenti, ma amor di giustizia. Non è invidia dispiacersi del bene raggiunto da un prepotente che farà soffrire gli innocenti, ma timore. Non è invidia cercare di imitare, uguagliare e possibilmente superare, con mezzi leali e con intenzione retta, le buone qualità dell’altro, ma emulazione. Non è invidia nemmeno rattristarsi del bene del nemico e desiderare di levarglielo per distruggerlo, ma odio.
L’invidia si distingue anche dalla gelosia, sebbene siano spesso unite. La gelosia è il voler essere solo ad avere un bene che anche gli altri possono lecitamente avere, amarlo fin troppo e temere esageratamente di esseme privato da un altro (il primato in classe tra studenti, la maggior clientela tra commercianti e tra professionisti); invece l’invidia si riferisce al bene altrui in modo che l’invidioso dimentica se stesso per pensare malignamente solo al bene degli altri e non ha altro piacere che vedere il male altrui. Insomma si è gelosi del proprio bene e invidiosi del bene altrui.
L’invidia esercita la sua azione sui beni del corpo (bellezza, salute, forza), della fortuna (ricchezza, cariche, amicizie), dell’intelligenza (titoli di studio, eloquenza), dell’anima (virtù, santità) e sulla persona stessa dell’altro, praticamente su tutto.
Ispira pensieri e affetti assolutamente riprovevoli. Difatti l’invidioso interpreta sinistramente tutto, parla male di quelli che invidia trasformando o ingrossando le loro cose o presentandole sotto l’aspetto più vulnerabile e più antipatico; si irrita quando vede un altro lodato, finge di parlare per compassione o amore ma alla fine morde, trama insidie al punto di non curare i propri interessi pur di riuscire a danneggiare l’invidiato, quando colpisce/opera alle spalle e nascostamente, accetta in un primo momento la lode dell’altro ma poi la mette in dubbio e infine la nega; critica Dio che non gli dà quello che lui pretende, non vede nulla di buono nel prossimo, si contenterebbe di un occhio solo purché l’invidiato li perdesse tutti e due, non ride se non quando vede il male dell’altro, per nascondere i suoi segreti dice falsità e semina sospetti, smania quando vede che agli altri riesce tutto cerca pretesti per diminuire o annullare la stima degli altri, quando non può negare una bella azione la presenta come facile, e perciò non stimabile, e comunque voluta dall’egoismo di chi l’ha fatta, disprezza il bene che ha in sé e cerca disordinatamente quello che gli manca, non è mai contento e trova da ridire su tutto e su tutti, se non arriva a certi eccessi, è per mancanza di coraggio, non di cattiveria.
Si possono distinguere in questo comportamento peccati interni: avversioni, ipocrisie, reticenze; e peccati esterni: denigrazioni, intrighi, falsità, insinuazioni, disobbedienze alla legge di Dio, tradimenti: peccati improntati a molteplice malizia.
L’invidia si oppone alla ragione. Difatti ogni rancore presuppone un’offesa, reale o immaginaria, ma l’invidia è un rancore che non ha fondamento perché non fa riferimento ad alcuna offesa, bensì semplicemente a una situazione migliore in colui che viene invidiato. È bello trovare gusto nel disgusto altrui? È lecito volere il male degli altri senza alcun motivo? Invidiando, si peggiora forse la situazione dell’invidiato e si migliora la propria? Possono essere dati i beni del mondo a tutti nella medesima quantità e qualità? Ha forse meno responsabilità chi ha più beni? No certamente. Dunque non c’è nulla più irragionevole dell’invidiare.
L’invidia si oppone alla carità, cioè alla regina delle virtù. Dio comanda di amare il prossimo come se stesso condividendone piaceri e dispiaceri, secondo la massima di san Paolo “godere con chi gode e piangere con chi piange”, e invece l’invidia vuole e cerca soltanto il male del prossimo, anche degli amici e dei familiari, oltre che degli estranei e dei nemici, e pretende che gli altri non stiano bene. Quindi si rallegra di ciò che dovrebbe rattristare, e si rattrista di quello che dovrebbe rallegrare (1).
L’invidia si oppone a Dio stesso. Offende il sovrano dominio che Egli ha sull’uomo in quanto è libero di dare i suoi doni a chi gli pare e piace, e non dovrebbe darli ad uno sol perché non garba all’invidioso? Offende la Divina Provvidenza con la quale Dio dà a ciascuno ciò che gli conviene secondo i suoi misteriosi ma giusti disegni. Offende la Bontà di Dio in quanto mira a minimizzare e forse anche a distruggere i doni che Egli ha elargito agli uomini. Offende la Sapienza di Dio che ordina tutto quanto accade nel mondo.
Insomma la malizia dell’invidia può dirsi diabolica e più che diabolica. Diabolica perché come il diavolo fa male per far male, sta male lui e vuole che tutti stiano come lui, così l’invidioso fa male per il maledetto piacere di veder nascere il male anche là dove non c’è; più che olica perché il diavolo non invidia gli altri diavoli con i quali anzi vive d’accordo, invece l’invidioso insidia i suoi simili, mostrandosi così peggiore delle belve che, e appartenenti alla stessa specie, vivono in pace tra loro.
A tanta malizia corrisponde altrettanta gravità che tocca la punte più detestabili quando, nel modo, l’invidia trama tacendo, e quando, nell’oggetto, tende a deprezzare e anche a disprezzare i beni più sacri (grazia, virtù, santità), e in questo caso costituisce peccato contro lo Spirito Santo, uno dei più gravi.
L’invidia è diffusissima. Chi non invidia a questo mondo? E chi non è invidiato? L’eguale invidia l’altro eguale perché lo vede andare pari pari con lui e non lo vorrebbe perché pretende andare innanzi lui. L’inferiore invidia il superiore perché lo vede maggiore di sé e vorrebbe essergli almeno eguale. Il superiore invidia l’inferiore perché teme che questi arrivi un giorno ad eguagliarlo. Insomma “si invidiano i pari perché ci sono eguali, si invidiano gli inferiori perché non ci eguaglino, si invidiano i superiori perché non si è pari a loro” (S. Agostino). Di solito questa passione fiorisce tra persone di eguale o quasi eguale condizione e importanza.
Anche il bambino conosce l’invidia, prima ancora di imparare a parlare, come ben vede la madre quando dà qualcosa ad altri e non a lui.
Non c’è solo invidia tra persona e persona, ma anche tra famiglia e famiglia, tra gruppo e gruppo, tra popolo e popolo. Non c’è mai stata gloria senza invidia.
L’invidia è inconfessabile. Tutti gli altri si allietano per i beni che godono e si affliggono per i mali che soffrono, l’invidioso invece è felice del male altrui e infelice del bene altrui. Gli altri viziosi arrivano anche a riconoscere, per vanità, le proprie passioni cattive, ma l’invidioso si vergogna di dichiararsi tale, anzi protesta di non esserlo affatto, tanto avverte anch’egli che non si può invidiare senza trasgredire ogni legge naturale, umana e divina.
D’altra parte l’invidia sa mascherarsi così bene che in certe occasioni si confonde con qualcuna delle virtù. L’avarizia, la lussuria, l’ira, per così dire, si toccano e si misurano, ma l’invidia è impalpabile, quasi invisibile. Chi non vuole ammettere di invidiare, inganna se stesso.
L’invidia è inescusabile. La superbia si scusa con la necessità del buon nome, l’avarizia con la povertà, la lussuda con la natura, l’ira con l’istinto, la gola con il bisogno, l’accidia con la stanchezza, e sono scuse di qualche apparenza anche se vane, vacue e vuote; ma l’invidia non ha nessuna scusa nemmeno apparente.
L’invidia è implacabile. Ciascun vizio si oppone a una determinata virtù, ma essa, come la superbia dalla quale deriva direttamente, può dirsi opposta a tutte le virtù, tanto è penetrante. “Nemmeno la mannaia del boia è affilata quanto l’invidia” (Skakespeare). Nacque con gli uomini e morirà con gli uomini. Più le si cede, più prepotente diviene. Peggiore è l’invidia dell’amico che sidia del nemico. Ha potuto dire De Mun: “Ho passato la mia vita nell’essere assalito dai miei migliori amici”.
Calcolare i danni è ben difficile. L’invidia rovina la salute. A poco a poco disturba la digestione, corrompe il sangue, brucia il cuore, turba il cervello, consuma le forze, indebolisce le ossa, impedisce il buon funzionamento dell’organismo e può anche causare una morte prematura o costringere a togliersi la vita. Il volgo non esagera quando, giudicando l’invidioso, dice: “L’invidia se lo mangia”.
L’invidia tormenta il cuore, che non è mai quieto e contento, nemmeno quando l’invidioso riesce a spuntarla sull’altro, anzi passa di agitazione in agitazione sotto la stretta del rimorso e la sferza della delusione. Soffre due volte: per i mali che esso ha e per i beni che gli altri hanno. Soffre più a lungo di quanto duri il benessere di colui che ha invidiato. ”Ciò che la tignola è per i vestiti, il verme per,il legno, la ruggine per il ferro, è l’invidia per il cuore dell’uomo: lo rode e lo divora” (S. Alfonso).
L’invidia provoca catene di mali che arrivano sino alla malattia, al disonore, all’uso delle armi, a interventi giudiziari, al carcere, al delitto, alla perdita del senso religioso della vita, all’impoverimento, all’impenitenza finaIe (2). Essa è una chiave per svolgere un’indagine sociologica e una luce per capire la società e la storia.
L’invidia si castiga da se rimanendo scornata dai suoi stessi mezzi e raggiungendo l’effetto opposto a quello che si prefiggeva con la sua cattiveria. Non guadagna né piacere né vantaggio: nessun piacere perché si trasforma in tormento al minimo cenno del bene altrui; nessun vantaggio perché non migliora chi invidia e non peggiora chi viene invidiato, anzi finisce con l’esaltare colui che voleva atterrare: è una specie di lode (3). “Fra pochi uomini, l’invido riesce facilmente contro l’invidiato; tra parecchi, è più difficile; tra molti, è impossibile. È naturale: l’invidia è un vizio grossolano che rivela facilmente se stesso e che, tradito, ci fa disprezzare l’invido e distruggere gli effetti della sua invidia” (C. Balbo).
Molti chiamano “giusto” questo vizio perché si rivol ta contro lo stesso vizioso e ne fa giustizia con la sua logica inesorabile. Se si invidia, è precisamente perché ci si sente inferiori. Gli spiriti superiori conoscono la rivalità, non l’invidia; si cercano e si aiutano, non si çombattono. Tra le poche cose belle della vita c’è il non invidiarsi nonostante la tentazione; tra le molte cose brutte c’è questo spettacolo che faceva dire ad A. Graf: “Che cos’è l’uomo che invidia l’altro uomo se non una miseria che invidia un’altra miseria?”.
Per resistere alle seduzioni dell’invidia occorre fissare nella mente e tradurre in pratica convinzioni come queste: la diversità nella distribuzione dei beni non è un’offesa o un’ingiustizia personale, ma costituisce per ognuno e per tutti il dovere di una vicendevole integra perché tutti i beni sono dati per tutta l’umanità; non sopravvalutare i beni materiali e comunque cercare soprattutto quelli spirituali; riconoscere i meriti degli altri; “l’ammirazione è il modo più nobile di affermare la superiorità di colui che ammira” (4); le belle qualità degli altri non diminuiscono le nostre; gli onori sono più vani che utili, quando non sono pericolosi (5); è inutile e ridicolo invidire ciò che non si può avere; sapersi contentare del proprio stato pur tendendo a migliorarlo.
Più elevate e più persuasive convinzioni scaturiscono dalla virtù che contrasta il passo all’invidia, cioè dalla carità e precisamente da quella parte della carità che è la fraternità, che inclina a volere il bene di tutti come se fossero fratelli e perciò ad avere compiacenza del bene altrui e compassione del male altrui.
Compiacersi del bene degli altri perché viene dal buon Dio che regala agli altri come a noi; perché il bene di Dio va amato dovunque si trovi, non solo in noi ma anche negli altri, in tutti gli altri, pure negli avversari e nei nemici; perché il bene degli altri è anche bene nostro secondo la verità del Corpo Mistico per la quale tutti partecipano delle buone opere degli altri.
Compatire il male altrui perché l’altro è l’immagine di Dio, il fratello di Gesù Cristo, il simile da aiutare con ogni mezzo consentito alla propria condizione, e così da sentire il male di lui come se fosse proprio. “Quando un amico ride, tocca a lui svelarmi la ragione della sua allegrezza; ma quando piange, tocca a me scoprire la causa del suo dolore” (Desmahis).
Se gli uomini si amassero come fratelli e ognuno, cercando il proprio bene nel bene di tutti, unisse la propria vita alla vita di tutti e si tenesse pronto a sacrificarii per gli altri egualmente pronti a sacrificarsi per lui, in questo mondo si soffrirebbe di meno e si godrebbe di più, allora fiorirebbero l’amicizia, la confidenza, l’intimità, la collaborazione. Tale traguardo è forse irraggiungibile nella globalità del genere umano, ma è benedetto e salutare ogni sforzo che ad esso si avvicini.
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1) Disse il filosofo Bione vedendo tristissimo un noto invidioso: “O è accaduto qualche grosso male a lui; o qualche gran bene a un altro!”.
2) Il Ribera fu invidioso dei pittori che riteneva suoi contendenti. Fu sospettato della morte in mare di due pittori da lui inviati a fare un giro in barca. Fece scomparire tutta la pittura di un bel quadro d’altare dello Stanzioni con un liquido corrosivo che aveva presentato ai frati come un’acqua speciale capace di rendere al quadro la chiarezza originale. Perseguitò tanto il Domenichino che questi morì di crepacuore.
3) Il cardinale Richelieu, quando sentiva parlar male di qualcuno, diceva: “Fatemelo conoscere. Deve avere qualche merito costui se vi accanite tanto contro di lui”.
4) È pensiero di Giovanni Papini che così continua: ”… Chi ammira dice, senza dirlo, così: io sento la tua grandezza, dunque sono grande anch’io, perché solo i pari s’intendono. Ho avuto da te una gioia e una gioia, con la mia ammirazione. ti restituisco: anche qui siamo pari. Se non avessi un’anima capace di sentire quel che hai espresso, non potrei ammirarti, dunque il mio spirito è uguale al tuo e, se uguale, domani potrà fare altrettanto e forse più. Appunto perché ti ammiro, mi affermo; perché ti riconosco alto, mi innalzo, e partendo dalla tua altezza spero di oltrepassarti”.
5) Il Petrarca, ricordando la corona d’alloro conferitagli solennemente a Roma, disse: “La corona non mi ha reso né più sapiente né più eloquente, non ha servito che a scatenare contro di me l’invidia”.


L’ACCIDIA

“Conosco le tue opere, so che tu sei né freddo né caldo.
Oh, fossi tu almeno o freddo o caldo! Ma poichè sei tiepido, né freddo né caldo, io stò per vomitarti dalla mia bocca.
Tu vai dicendo: Io sono ricco e dovizioso e non ho bisogno di nulla; e non sai che sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo!”
(Ap 3, 15-17)

Si è di solito portati a credere che soltanto le passioni violente prevalgano sulle altre, ma l’esperienza dimostra che anche l’accidia, a prima vista meno pericolosa, arriva a predominare con la sua lenta ma inesorabile azione. È segnata per ultima nel tradizionale elenco dei vizi capitali, non perché sia trascurabile, ma quasi per ricordare a modo di denominatore comune che è essa a prestare il terreno favorevole all’incubazione e allo sviluppo degli altri vizi.

L’accidia è il trascurare consapevolmente i doveri religiosi per evitare lo sforzo che la loro osservanza richiede.
Quindi non è l’aridità di spirito, che è semplicemente una certa mancanza di fervore sensibile in chi è già impegnato nella pratica delle opere buone; non è l’istintiva ripugnanza che la natura umana sente anche per la minima occupazione che esiga sacrificio; non è la svogliatezza che può sorprendere per stanchezza o malattia o indisposizione o malumore; e non è nemmeno la pigrizia, che si riferisce alle cose terrene della vita. Rassomiglia però stranamente all’invidia, in quanto questa si rattrista del bene altrui mentre l’accidia del bene proprio: è quindi una specie di invidia contro se stesso.

E difatti l’accidioso agisce così: non dichiara l’intenzione di abbandonare la Fede, ma non prega, non frequenta i sacramenti, non si preoccupa dello stato della sua anima, non pensa all’eternità, lascia crescere in sé le inclinazioni disordinate, critica la Chiesa perché chiede questo o quello, non impara la dottrina cristiana per non sapere di avere nuovi obblighi, non è attento alle ispirazioni della Grazia alle quali anzi resiste facilmente, comincia talvolta l’opera religiosa ma poi o la smette subito o la esegue imperfettamente, rifugge dalle mortificazioni prescritte, si pente di un peccato ma poi ci ricade più pesantemente, non si preoccupa di correggere i suoi difetti, si irrita contro le prediche lunghe o pungenti, sottovaluta le ammonizioni che i buoni gli danno, non impedisce il male che potrebbe impedire, sente crescente avversione alle cose spirituali, si scaglia contro quelli che praticano la religione, si sottrae all’adempimento dei doveri del suo stato, reagisce al rimorso che affiora di tanto in tanto in lui, si crede spiritualmente più debole di quello che è, immagina più difficoltà di quante ce ne siano per fare il bene, cerca consolazioni nelle cose illecite, avverte noncuranza e anche disprezzo di Dio, comincia a disperare della propria salvezza eterna.

Ci sono dunque nell’accidioso peccati di pensiero, di parole e di opere, più numerosi di quanto si creda a un primo momento: la pusìllanimità, il torpore, la dissipazione, la detestazione dei beni spirituali, il cattivo esempio, l’attaccamento alle comodità, l’indignazione contro i buoni, l’incostanza, lo scoraggiamento, la trasgressione dei comandamenti di Dio e dei peccati della Chiesa, la disperazione della salvezza eterna.

E c’è anche più malizia di quanto sembrerebbe al primo sguardo. L’accidioso va contro Dio e persino contro se stesso. Contro Dio perché non vuole servirlo né amarlo né sperare in lui né goderlo, e quindi egli è ribelle, offensore, ingrato. Contro se stesso perché, non facendo per Dio quello sforzo che pur fa per tutte le altre faccende della vita, egli si interdice l’unica, vera felicità possibile su questa terra, cioè il godimento di Dio; è quindi anche uno stolto!

È pertanto una situazione ben grave. Non è ancora la morte, ma è certamente quel languore che conduce ad essa, insensibilmente ma inevitabilmente. Non c’è praticamente una sola azione nella quale non ci si possa macchiare di accidia, o nel cominciarla o nel continuarla o nel terminarla. Si può mancare per negligenza, interessandosi poco o nulla delle verità che riguardano la salvezza dell’anima per inseguire altre cose più o meno inutili; per timore, paventando troppo le difficoltà che si incontrano nel fare il bene; per timidità, non osando mostrare il bene che si sa e quello di cui si è capaci; per languore, adempiendo le pratiche religiose per pura formalità, senza voglia e con intenzioni opportunistiche; per incostanza, intraprendendo opere buone ma poi abbandohandole senza motivo; per avversione, non mettendo in esecuzione i buoni consigli dati da quelli che hanno scoperto i difetti; per disperazione, pensando di non potere in nessun modo superare gli ostacoli che si oppongana al miglioramento spirituale.

Si può ben dire che non c’è peccato senza accidia. ”Chi dice: mi fermo e non scendo più giù, è già
caduto” (S. Agostino). “È già un gran male il non fare alcun bene” (S. Francesco di Sales). È difficile convertire a migliori propositi un accidioso incallito, più di quanto sia convertire un peccatore impenitente. È più alto il numero dei veri accidiosi che quello dei veri peccatori.

I danni prodotti da questo vizio non appaiono subito, ma forse proprio per questo sono più rovinosi. Infatti l’accidia impedisce la perfezione, snerva la volontà, addormenta la coscienza, rende più insistenti e più forti le tentazioni, toglie il gusto delle cose spirituali, predispone a colpe peggiori, compromette l’eterna salvezza.

I castighi non possono mancare. Ne dà idea Gesù Cristo quando dice: “Ogni albero che non produce buoni frutti, viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 7,19). L’albero raffigura il cristiano, l’infruttuosità rappresenta l’accidia del cristiano, il taglio e il bruciamento indicano la morte e la punizione dell’accidioso. Dunque l’albero è tagliato e bruciato non perché abbia prodotto frutti cattivi, ma semplicemente perché non ha fatto frutti buoni. A quel fico sterile Gesù disse: “Nessuno mai più in eterno mangerà frutto da te” (Mc 11,14).

Le vergini furono escluse dalla festa nuziale non perchè si fossero macchiate di qualche bruttura ma perché erano sprovviste di olio, cioè di opere buone (Mt 25,10).
Non era ladro od omicida quel servo che il Vangelo dice gettato nelle tenebre dove c’è pianto e stridore di denti, ma un accidioso che non aveva trafficato il talento secondo la volontà del padrone (Mt 25,30).

Chi è vittima di questo vizio può tornare al fervore gioso se alimenterà il suo spirito con la forza di alcuni convincimenti, come questi: lo scopo della vita è uno solo: salvarsi l’anima, non stancarsi mai di compiere opere buone, aspirare a un grado di perfezione più alto di quello che si è raggiunto, Dio è sempre prontissimo a sostenere il nostro sforzo, il Paradiso ripaga immensamente qualunque sacrificio.
La virtù che combatte l’accidia è la diligenza, ossia cura sollecita e assidua nell’imparare ed eseguire tutto, ciò che riguarda il servizio di Dio, in altri termini l’amore al proprio dovere religioso. Essa include prontezza nel cominciare ad adempiere ciò che deve fare, attenzione nel continuarlo nonostante le difficoltà che ne ritardassero o impedissero l’adempimento, tenacia nel compiere sino in fondo il proprio dovere con la letizia di avere servito, amato e goduto Dio.

La diligenza è un grande atto di amore a Dio, una dichiarazione di obbedienza alla sua volontà che si riconosce nell’impegno da assolvere, una protesta di fedeltà alla sua legge che si accetta non solo nel suo complesso ma anche nei suoi particolari; non semplicemente fa compiere il bene ma lo fa compiere bene, tanto nelle grandi azioni quanto in quelle piccole, nonostante il peso della noia e l’attrattiva delle distrazioni. È considerata “piccola virtù”, ma è anch’essa costosa, meritoria e necessaria.

Quanto brilla nella condotta dei migliori! San Pasquale, mentre giovane pascolava le pecore, fermava i passanti per farsi insegnare le lettere dell’alfabeto e così imparare a recitare le preghiere dell’Ufficio della Madonna. S. Ignazio di Loyola segnava ogni giorno le sue mancanze su un librettino, che fu poi trovato sotto il guanciale, dopo morte.

S. Giovanni Battista de la Salle proponeva: “Almeno venti volte al giorno unirò le mie azioni a quelle di Nostro Signore: ogni volta bucherò un pezzo di carta…”. La beata Elena Guerra, per l’ansia di seguire bene la liturgia, volle imparare il latino, e dovette apprenderlo all’insaputa dei genitori, ascoltando dietro l’uscio le lezioni che un professore dava a suo fratello e studiando di notte alla debole luce di lanternine fatte da lei con gusci di noce riempiti di olio.

San Francesco di Sales, per ricordarsi il voto fatto di dire il Rosario intero ogni giorno, portava la corona pendente al braccio. Martino V fece incidere nel suo sigillo papale una fiamma ondeggiante perché gli ricordasse la fiamma eterna dell’Inferno.

Il buon Dio non si aspetta da noi la perfezione ma l’intenzione di cercarla, perché “chi conosce il bene che deve fare e non lo fa, commette peccato” (Gc 4,17) e lo sforzo di tendere ad essa, perché “non ci sarà richiesto di avere abbattuto l’albero, ma di essere stati trovati con la scure in mano” (Holderlin).


CONCLUSIONE

Ai nostri giorni alcuni tra i vizi capitali hanno assunto nell’ambito del loro contenuto qualche aspetto nuovo portato dall’evoluzione dei tempi.

La superbia è vista oggi anche nell’occupare una corsia di strada non permessa dal regolamento, nel passare l’incrocio nonostante l’indicazione contraria del semaforo o il fischio ammonie del vigile urbano.

L’avarizia include anche l’atteggiamento di colui che dopo anni di dominio non vuol cedere o spartire il suo potere.

La gola ha una attuale malifestazione nell’uso frequente del fumo e della droga, e nel mangiare in locali lussuosi e costosi.

L’invidia racchiude le contestazioni contro quelli che comandano fatte da coloro che dipendono ma vorrebbero comandare al posto di quelli che essi contestano.

Tuttavia non si può dire che nel tempo presente i vizi capitali siano nominati spesso, anzi tutt’altro. Già non si a frequentemente di peccato in senso teologico, tanto meno quindi di “vizio” e di vizio “capitale”.

Ma anche quando se ne parla, non sempre si segue la dottrina cristiana. Si nota anzitutto in certi scrittori e giornalisti la tendenza a sostituire i termini’ tradizionali della Chiesa con altri che essi dicono più illuminanti: non dicono più superbia, ma la propria affermazione, il proprio io; non più avarizia, ma autosufficienza; non più ira, ma nervosismo, malumore; non più invidia, ma siillazione di conflitto, lotta di classe; non più accidia, ma pigrizia (e questo senso sbagliato risale, per la verità, a secoli passati).

Altri poi non ritengono male ciò che lo spirito cristiano denuncia come vizi capitali, perché sarebbe, secondo essi, una componente biologica dipendente dagli ormoni, dalla pressione, dal tempo (1).
Altri ancora considerano male i vizi capitali, ma li accettano, li praticano e se ne compiacciono (2).
Non manca neanche chi pretende spiegare tutti i vizi con la sola radice della sessualità.

È un danno per tutti i credenti e non credenti in Dio, non tenere presenti nella condotta privata e nei rapporti m il prossimo i vizi capitali, e non tenerli presenti quali presenta la dottrina cristiana, che ragiona non solo con l’aiuto della ragione e la luce dell’umana esperienza, ma anche e soprattutto con la forza della Rivela:zione fatta da Dio e affidata alla Chiesa.

Il vizio è regresso, decadimento, guerra, prigionia, infelicità; e perciò va smascherato e combattuto con tutte le armi difensive e offensive dello spirito perché è il nemico di ogni giorno e di ogni notte. Anche oggi, purtroppo, non sono pochi i superbi, gli avari, i lussuriosi, gli iracondi, i golosi, gli invidiosi e gli accidiosi.

La virtù è progresso, elevazione, pace, libertà, felicità; e perciò merita di essere conosciuta, amata, praticala, difesa e diffusa perché canti vittoria sui vizi d’ogni colore e d’ogni peso: è questa la più bella vittoria della storia. Più che scienziati, letterati, tecnici e sportivi, per migliorare l’umanità di oggi dolorosamente smarrita nella più disintegrante immoralità, occorrono urgentemente e abbondantemente gli umili, i liberali, i casti, i mansueti, i sobri, i fraterni, i diligenti.

Tutti quelli che hanno in sé una qualunque possibililà e ascendente di posizione, di censo, di qualità fisiche, intellettuali e morali aiutino la virtù a spuntarla sul viso, e subito. “Chi rimanda di giorno in giorno il vivere virtuosamente rassomiglia al contadino che, per passare, sta aspettando che un fiume sia finito, ma il fiume scorre e scorrerà eternamente” (Orazio, Ep. 2,1). Invece chi fa il buon proposito e lo osserva subito, è già a metà strada: “Tra il vizio e la virtù lo spazio è breve” (A. Pope).

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1) Uno scrittore ha detto: “Non diciamo sciocchezze: quale peccato? La gola non è peccato, è una vendetta, una rivendicazione che tutti dovrebbero esercitare…” – E un attore cinematografico: “… c’è la rabbia giornaliera. costante. continua. Ma venga pure. vuoi dire essere vivi, essere ancora travolti da sentimenti…”.

2) Ha dichiarato un attore noto in campo internazionale: “Sì lussuria, lussuria sì. Sono lussurioso, e felice che sia un peccato mortale: godo di più. lo sono goloso di sesso più che di cibo, più di sesso che di denaro, più di sesso che di carriera… lasciatemi essere lussurioso”. _ E un’attrice: “Invidiosa, orgogliosa e avara. Sono schiava dei tre peccati peggiori, e non mi vergogno di affermarlo, anche perché grazie ad essi sono arrivata dove sono arrivata. Credo che… se non si è un poco invidiosi, un poco orgogliosi e un poco avari, non si riesce a combinare nulla di buono. L’avarizia poi io la considero il coronamento degli altri due peccati”.

FONTE: Sac. Pasquale Casillo, Ed. Casa Mariana.
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