Sviluppo dei popoli, diritti e doveri, ambiente.

benedetto xvi43. « La solidarietà universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere » [105]. Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio [106]. Si assiste oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche, per l’altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell’umanità [107]. Si è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata e priva di criteri. L’esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti dell’uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un’assemblea di cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali possono allora dimenticare l’oggettività e l’« indisponibilità » dei diritti. Quando ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo [108]. Comportamenti simili compromettono l’autorevolezza degli Organismi internazionali, soprattutto agli occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi, infatti, richiedono che la comunità internazionale assuma come un dovere l’aiutarli a essere « artefici del loro destino » [109], ossia ad assumersi a loro volta dei doveri. La condivisione dei doveri reciproci mobilita assai più della sola rivendicazione di diritti.

44. La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle problematiche connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e della famiglia [110]. Considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare, da una parte, all’importante diminuzione della mortalità infantile e al prolungamento della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall’altra, ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione responsabile, che costituisce, tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell’uomo, gli raccomanda il pieno rispetto dei valori umani anche nell’esercizio della sessualità: non la si può ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l’educazione sessuale non si può ridurre a un’istruzione tecnica, con l’unica preoccupazione di difendere gli interessati da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i casi si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle quali le persone finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la competenza primaria delle famiglie in questo campo [111], rispetto allo Stato e alle sue politiche restrittive, nonché un’appropriata educazione dei genitori.

L’apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza sociale, ne aumenta i costi, contrae l’accantonamento di risparmio e di conseguenza le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le necessità della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica, proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio, la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, [112] facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale.

45. Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario, aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business ethics; si diffonde nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell’impresa. Le banche propongono conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica », soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell’aggettivo « etico » che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo.

Molto, infatti, dipende dal sistema morale di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell’uomo “ad immagine di Dio” (Gn 1,27), un dato da cui discende l’inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente valore delle norme morali naturali. Un’etica economica che prescindesse da questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola « etica » in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l’osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti « etici » dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale della Chiesa, che ricorda come l’economia, con tutte le sue branche, sia un settore dell’attività umana [113].

46. Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l’evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è andata emergendo un’ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l’una o l’altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società. È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale. Esse, senza nulla togliere all’importanza e all’utilità economica e sociale delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una più chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non solo. È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.

47. Il potenziamento delle diverse tipologie di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e delle società, deve essere perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di emarginazione dai circuiti dell’economia globale, dove è molto importante procedere con progetti di sussidiarietà opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo però sempre anche l’assunzione di corrispettive responsabilità. Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione. È anche necessario applicare i criteri della progressione e dell’accompagnamento — compreso il monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente valide. Molto dipende dalla concreta gestione degli interventi. « Artefici del loro proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo nell’isolamento » [114]. Oggi, con il consolidamento del processo di progressiva integrazione del pianeta, questo ammonimento di Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche di inclusione non hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate sulla vita dei popoli e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di ogni situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto, serve la mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle persone giuridiche quanto delle persone fisiche.

La cooperazione internazionale ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo economico e umano, mediante la solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto. Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l’opinione pubblica circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell’istituzione stessa.

48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera. Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio.

La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l’umanità. È destinata ad essere « ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20). Anch’essa, quindi, è una « vocazione » [115]. La natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso » [116], bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l’uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla sua completa tecnicizzazione, perché l’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica” che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario. Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere fonte di violenza nei confronti dell’ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose verso la stessa natura dell’uomo. Questa, in quanto costituita non solo di materia ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini trascendenti da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: l’ecologico, il giuridico, l’economico, il politico, il culturale [117].

49. Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia dell’ambiente devono oggi tenere in debita considerazione le problematiche energetiche. L’accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati, gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative. L’incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri, genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro.

Anche su questo fronte vi è l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati [118]. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile un miglioramento dell’efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi. Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti nei popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione d’un mondo migliore » [119].

50. Questa responsabilità è globale, perché non concerne solo l’energia, ma tutto il creato, che non dobbiamo lasciare alle nuove generazioni depauperato delle sue risorse. All’uomo è lecito esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere e nutrire la popolazione che la abita. C’è spazio per tutti su questa nostra terra: su di essa l’intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l’aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch’esse possano degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla. Ciò implica l’impegno di decidere insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l’obiettivo di rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino » [120]. È auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano contrastare in maniera efficace le modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. È altresì doveroso che vengano intrapresi, da parte delle autorità competenti, tutti gli sforzi necessari affinché i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future: la protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta [121]. Uno dei maggiori compiti dell’economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l’abuso, tenendo sempre presente che la nozione di efficienza non è assiologicamente neutrale.

51. Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all’edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano [122]. È necessario un effettivo cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti” [123]. Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca, è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più una variabile indipendente. La desertificazione e l’impoverimento produttivo di alcune aree agricole sono anche frutto dell’impoverimento delle popolazioni che le abitano e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale di quelle popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono devastate dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia della natura. L’accaparramento delle risorse, specialmente dell’acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull’uso delle risorse può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate.

La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’« ecologia umana » [124] è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l’indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura.

Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un’istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società.

52. La verità e l’amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere. La loro fonte ultima non è, né può essere, l’uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e Amore. Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo, in quanto né l’una né l’altro possono essere solo prodotti umani; la stessa vocazione allo sviluppo delle persone e dei popoli non si fonda su una semplice deliberazione umana, ma è inscritta in un piano che ci precede e che costituisce per tutti noi un dovere che deve essere liberamente accolto. Ciò che ci precede e che ci costituisce — l’Amore e la Verità sussistenti — ci indica che cosa sia il bene e in che cosa consista la nostra felicità. Ci indica quindi la strada verso il vero sviluppo.

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[105] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17: l.c., 265-266.
[106] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, 5: AAS 95 (2003), 343.
[107] Cfr ibid.
[108] Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 13: l.c., 781-782.
[109] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c., 289.
[110] Cfr ibid., 36-37: l.c., 275-276.
[111] Cfr ibid., 37: l.c., 275-276.
[112] Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 11.
[113] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 14: l.c., 264; Giovanni Paolo II Lett. enc. Centesimus annus, 32: l.c., 832-833.
[114] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 77: l.c., 295.
[115] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 6: AAS 82 (1990), 150.
[116] Eraclito di Efeso (Efeso 535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526 .
[117] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, nn. 451- 487.
[118] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 10: l.c., 152-153.
[119] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 65: l.c., 289.
[120] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7: AAS 100 (2008), 41.
[121] Cfr Id., Discorso ai partecipanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 618- 626.
[122] Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 13: l.c., 154-155.
[123] Id., Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840.
[124] Ibid., 38: l.c., 840-841; cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 8: l.c., 779.

FONTE: BENEDICTUS PP. XVI; CARITAS IN VERITATE; ©Copyright 2009 – Libreria Editrice Vaticana
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