La Passione di Gesù
Le parole di rimprovero, rivolte da Gesù agli scribi e in generale alla classe dirigente, avevano suscitato un fermento più grande contro di Lui da parte dei principi dei sacerdoti, i quali, decisi di farla finita, radunarono un consiglio segreto per studiare il modo di ucciderlo. Essi, però, temevano il popolo perché, in occasione della Pasqua, concorreva numeroso a Gerusalemme da tutte le parti, e capivano che fra tanta gente era possibile che ci fossero molti seguaci del Redentore i quali avrebbero potuto combattere, per difenderlo. Decisero quindi di attendere un’occasione propizia e, dolorosamente, questa la diede loro proprio un apostolo di Gesù: Giuda Iscariota.
L’evangelista ritorna un po’ indietro con la narrazione, e racconta un fatto che determinò, nell’anima di Giuda, il triste pensiero di tradire il Maestro, cioè la cena di Betania e l’alabastro d’unguento prezioso sparso sul capo di Gesù. Questo avvenne il sabato precedente l’entrata trionfale del Redentore in Gerusalemme, e suscitò nel cuore di Giuda tale avarizia e tale dispetto, da fargli concepire il pensiero di vendere il suo Maestro.
L’evangelista riporta qui questo episodio, perché il contrasto vivo tra l’amore generoso della Maddalena e l’avarizia di Giuda fa risaltare di più l’orrore del tradimento, ed è ricco d’insegnamenti per noi.
Gesù Cristo si era raccolto in Betania, invitato a mensa in casa di un certo Simone, soprannominato il lebbroso, perché guarito dalla lebbra. A Betania, il rifugio normale di Gesù era la casa di Lazzaro, di Marta, e di Maria Maddalena, e l’invito che ebbe in casa di Simone dovette costituire, per loro, un disappunto.
È naturale: chi è onorato dall’amicizia di una persona buona, dolce e santa, dalla cui bocca escono parole di vita, non si rassegna facilmente a vederla altrove; se la persona, poi, è bisognosa di aiuto e di assistenza, vuole ad ogni costo prestargliela, e diffidando di quello che possano farle gli altri. C’è un misto di amore, di gelosia o di preoccupazione che fa sembrare sempre fredda l’accoglienza che le fanno gli altri, e c’è anche un sentimento di zelo e di emulazione nel volerla onorare e nel farne risaltare la grandezza.
Maria Maddalena, abituata a stare ai piedi di Gesù e ad ascoltarne la parola, non si rassegnò a stare in casa, e andò anch’essa da Simone.
Dovette certamente ricordarsi del giorno benedetto nel quale ella, in casa di un altro Simone, nella Galilea, s’era convertita ai piedi di Gesù, e li aveva unti con unguento, dovette ricordarsi che, in quella occasione, il Redentore si era lamentato con Simone di non aver ricevuti da lui atti di cordialità, e l’aveva lodata per quello che ella gli aveva fatto.
La presenza, a mensa, di suo fratello Lazzaro (cf Gv 12,2) risuscitato dal Maestro divino, accrebbe il suo amore, e la sua gratitudine e, nel tumulto dei suoi affetti, non esitò a prendere un vaso di preziosissimo unguento e a spargerlo sul capo e – come ci dice san Giovanni –, sui piedi di Lui. Il capo e i piedi emergevano di più a mensa, perché i convitati vi stavano sdraiati, ed ella vi sparse l’unguento in segno d’amore.
Aveva una tristezza nell’anima, un presentimento che avrebbe perso il suo Maestro; le parole di Lui, il suo aspetto accorato, le insidie dei suoi nemici: tutto dava consistenza al suo presentimento, ed ella gli diede quell’attestato d’amore con un pensiero funereo, angosciato, accoratissimo. Per questo Gesù disse che l’aveva unto anticipatamente per la sepoltura.
Ruppe il vaso di alabastro che conteneva l’unguento perché quei vasi avevano il collo lungo e stretto ed ella voleva dare non a stille il suo profumo, ma con esuberanza. Sparse l’unguento sul capo, e san Giovanni dice anche sui piedi che asciugò con le proprie trecce e, spargendo il profumo, volle spargere il suo cuore ai piedi del Maestro divino.
Chi poteva intendere il suo amore tra i discepoli di Gesù, abitualmente presi da un’ impressionante freddezza? E come potevano essi valutare la gratitudine di quel cuore? Ella era una risorta spiritualmente, e suo fratello era stato da poco risuscitato nel corpo; l’anima sua non poteva avere restrizioni nella generosità, e donò un preziosissimo vaso d’unguento.
Gli apostoli, e Giuda in particolare – come dice san Giovanni (12,5) –, se ne indignarono, sembrando loro uno sciupio inutile quell’unguento, da essi apprezzato più di trecento denari.
Certo, il valore non era poco, ma era sempre nulla di fronte all’amore riconoscente che ispirava quell’atto generoso. È mirabilmente psicologico il modo come gli apostoli e Giuda giustificarono la loro indignazione.
Essi furono presi da un senso di avarizia, dovuto forse anche alle diminuite elemosine della loro comune borsa tenuta da Giuda, a causa della persecuzione e delle ostilità contro il Maestro divino; pensarono che col prezzo di quell’alabastro avrebbero potuto vivere senza preoccupazioni nella Giudea, ma ebbero un certo pudore di manifestare questi loro sentimenti, e mostrarono di parlare per interesse dei poveri. Non volevano mostrarsi poco affettuosi verso il loro Maestro, erano dispiaciuti anche con Lui che aveva permesso quello sperpero e, sapendo quanto Egli amasse i poveri, per dar corpo alla loro indignazione, li tirarono in mezzo, sicuri di apparire non avari ma zelanti della carità.
È il segreto di quelli che tentano dissimulare un sentimento egoistico e basso con un sentimento elevato che non hanno.
Gesù Cristo, intenerito dall’amore di Maria Maddalena, rispose con infinita dolcezza e carità. Avrebbe potuto smascherarli, avrebbe potuto umiliarli, ma non lo fece, e mostrò di dar peso alla loro giustificazione. Essi inveivano contro la donna, e Gesù disse loro di lasciarla stare e di non inquietarla; mostravano di preoccuparsi dei poveri, ed Egli disse loro, con paterno accoramento, che ai poveri potevano sempre pensare, poiché li avrebbero avuti sempre con loro, e ci sarebbero stati sempre sulla terra, ma non avrebbero avuto sempre Lui visibilmente per prestargli atti di ossequio.
Toccò la fibra del cuore che ancora poteva risuonare in loro in quel momento di miseria spirituale, volle eccitarli alla tenerezza, per distrarli dall’inveire contro la donna, e poiché essi l’avevano riguardata come una fanatica squilibrata, volle reintegrarne, nel loro animo, la stima.
Quasi non si spiegherebbe perché Gesù abbia detto che, dovunque sarebbe stato annunciato il Vangelo, si sarebbe parlato anche di ciò che aveva fatto la Maddalena, senza pensare alla tenera preoccupazione di carità che aveva di ristabilire negli astanti la stima verso di lei. Ella ha fatto ciò che ha potuto – disse Gesù –, e con questo escluse che fosse stata esagerata; ha unto anticipatamente il mio Corpo per la sepoltura, e con questo mostrò che aveva operato per spirito profetico, elevandola, così, nella loro estimazione.
Anche inconsciamente, ella aveva profetato e, lungi dall’agire oziosamente, aveva annunciato l’imminente sepoltura del Redentore; Gesù le attribuisce, come titolo di gloria, quello che aveva fatto inconsciamente, e solo per un presentimento di morte.
Infine Gesù, dicendo che l’atto compiuto dalla donna sarebbe stato predicato in tutto il mondo, mostrò che non era frutto di fanatismo, ma era una testimonianza di vero e sincero amore che sarebbe rimasto di esempio nei secoli.
Il patto di Giuda
Di fronte a questa tenera testimonianza d’amore, il Vangelo pone a contrasto il patto di Giuda, il più scellerato e vile dei patti.
Egli era come il procuratore del collegio apostolico, custodiva il denaro e – come si rileva da san Giovanni –, se ne approfittava rubando. Tendeva forse a voler formarsi una posizione economica più stabile e una vita meno randagia; ammassava e metteva da parte quanto più poteva e gli sembrò di aver perduto l’occasione di un forte incasso, per la generosità della Maddalena. L’avarizia gli pose un tumulto nell’anima contro Gesù e, in quel momento, lo vide nei più foschi colori; lo riguardò come un impostore, s’illuse di doverlo denunciare per togliere via un inganno, pensò subito di trarre profitto dall’imbarazzo in cui erano i sacerdoti, e andò da loro, offrendosi di consegnarlo nelle loro mani proditoriamente.
Essi se ne rallegrarono, perché l’offerta del traditore rendeva possibile catturarlo senza frastuono, e toglierlo di mezzo al più presto; accedendo perciò all’esplicita domanda di Giuda gli promisero una somma.San Matteo dice che gli assegnarono trenta denari d’argento; forse Giuda non si contentò di una vaga promessa di compenso, ed insistette per sapere quanto gli volessero dare. La somma era meschina, ma Egli se ne mostrò contento, e cercava l’occasione favorevole per compiere il tradimento. Rimase con gli apostoli ma non era che un demonio.
Ormai il patto stretto lo costringeva a fingere, e i suoi giorni diventarono un inferno. Avversava il Maestro, e avrebbe voluto disfarsene al più presto, nella speranza di tacitare i rimorsi atroci del proprio cuore; perciò cominciò a studiare quale fosse il luogo e il momento più propizio per tradirlo.
Dal contesto si rileva che Giuda rimase in relazione col sinedrio, e che studiò l’attuazione del tradimento; la raccomandazione che fece dicondurre con attenzione Gesù dopo averlo catturato, dimostra che egli si preoccupava che potesse sfuggire al tranello che gli tendeva, e che quindi il suo cuore era giunto al fondo della perversità.
Scelse la notte per compiere il suo delitto, e scelse l’orto per luogo di convegno delle guardie, perché in quell’ora e in quel luogo era più facile evitare un tumulto; diede come segno del tradimento un bacio, per evitare d’insospettire il Maestro, nel quale non credeva più. In quale baratro lo gettò l’infedeltà alla grazia e l’avidità di un miserabile guadagno!
I principi dei sacerdoti e gli scribi, invece di esaminare attentamente i segni che Gesù dava della sua missione, si riunirono per ucciderlo.
Così fa l’empietà in tutti i tempi: congiura contro la Chiesa, contro Gesù Cristo e contro Dio stesso, per togliersi il fastidio dei rimorsi che la torturano, e per fare il male a man salva. Congiura il sinedrio, e Gesù tranquillamente siede a mensa in una casa ospitale; all’odio si oppone la soave intimità di una mensa, dove una donna unge Gesù di prezioso unguento.
Così avviene misticamente nel mondo: l’empietà congiura, e Gesù imbandisce il suo banchetto d’amore; alle sale tetre dove impera il satanismo, oppone le soavi intimità del Banchetto eucaristico, dove la Chiesa effonde il profumo soave del suo amore e della sua Liturgia, onorando il Redentore, suo Capo e sua unica Vita.
Maria Maddalena ruppe l’alabastro per profumare Gesù, e l’anima mia non può dargli il profumo della virtù senza infrangere, per così dire, l’involucro che la riveste, con la santa mortificazione. È nel dolore sofferto per amore che l’anima s’effonde in Gesù e lo profuma, esercitando la virtù e compiendo la divina volontà.
Gli apostoli, e Giuda in particolare, s’indignarono contro la donna che aveva onorato Gesù, sembrando loro uno sciupio l’effusione dell’unguento prezioso.
Così fanno quelli che hanno una falsa pietà e non amano davvero il Signore: credono esagerato tutto ciò che si fa per Lui, e si restringono miseramente nei loro materiali interessi. Gesù Cristo, invece, disse che la donna aveva fatto ciò che aveva potuto cioè aveva fatto quel poco che le sue possibilità le permettevano, volendo con ciò affermare implicitamente che quello che sembrava esagerato, in realtà, era poca cosa. Invece di credere esagerato ciò che si fa per Dio, dobbiamo piuttosto pensare che è ben poca cosa, e sforzarci a rendergli sempre più un amore pieno e totalitario.
Gesù Cristo promise e annunciò che l’atto della Maddalena sarebbe stato predicato in tutto il mondo e in tutti i secoli, immortalando, così, quell’attestato d’amore. Così Egli fa con le anime umiliate e disprezzate per suo amore: dilata il bene che fanno, e rende feconde d’immensi frutti le piccole piante seminate da loro nel dolore. Non c’impressioniamo, perciò, se il mondo ci disprezza, e non ci curiamo delle sue critiche alle espansioni del nostro amore a Dio; diamo al Signore tutto ciò che possiamo, e preoccupiamoci di Lui, poiché un giorno Egli ci giudicherà e non il mondo.
L’ammirabile testimonianza d’amore di Gesù: l’Eucaristia. Il grande segreto del regno di Dio.
Ricordando, con le parole stesse di Gesù, l’ineffabile dono dell’Eucaristia, bisognerebbe solo deporre la penna e piangere di riconoscenza e di amore! Pensare ad un Dio disceso dal cielo è una cosa che intenerisce, e suscita nel cuore l’amore più vivo; ma il considerare che Egli si è immolato e si è dato a noi come Cibo e come bevanda, rimanendo con noi vivo e vero, è una cosa che dà le vertigini.
Tu sei qui, mio Gesù, nel tabernacolo del tuo amore; sei con me, con me, nell’arcano silenzio della tua carità, Vittima perenne, Agnello di Dio, Arca di alleanza, Trono di grazia, Tesoro ineffabile che attrai tutte le nostre brame, Perla preziosa, nascosta nella nostra terra che ci spinge a tutto dare per averla, Aiuto e Sostegno della nostra vita soprannaturale, e Gioia perenne del nostro esilio!… Gesù Sacramentato! Qual dono ineffabile!
Se gli apostoli avessero potuto capirne la grandezza, non avrebbero potuto resistere alla piena dell’amore quando Gesù Cristo la istituì; bisogna riconoscere che Egli dovette nascondersi ai loro cuori per non farsi scorgere, rendendoli, così, capaci di poter vivere ancora, dopo un contatto tanto pieno e profondo con la sua vita!
O mio Gesù, l’anima mia non sa frenarsi, e si sente come liquefare al ricordo di quei momenti ineffabili nei quali il tuo amore si effuse con tanta pienezza, nonostante l’ingratitudine umana.
Proprio quando Giuda strinse col sinedrio il patto infame per consegnare Gesù nelle mani dei suoi nemici, Egli strinse, con l’umanità, il patto d’amore, per ridonarla a Dio; a Lui preparavano la morte, ma Egli preparava a noi la vita. È un contrasto che ci fa apprezzare maggiormente la pienezza del suo amore.
Gesù Cristo scelse una grande solennità, la Pasqua, per istituire il Sacramento del suo amore che era il compimento mirabile delle figure e delle profezie che lo preannunciavano. Nella Pasqua si riunivano le famiglie in maggiore intimità, e mangiavano l’agnello dopo averlo immolato al tempio; era il rinnovarsi del ricordo della liberazione dall’Egitto, ed era il sospiro alla liberazione che doveva apportare la redenzione; era un sacrificio di ringraziamento, e una solenne invocazione al Re atteso da secoli. Gesù Cristo volle unire la figura alla Realtà, e proprio nella Cena pasquale si donò come Agnello di vita e di liberazione.
Nel primo giorno degli Azzimi, cioè della solennità pasquale nella quale si mangiava il pane non fermentato, gli apostoli domandarono a Gesù dove volesse che preparassero il banchetto. Essi erano pellegrini nella Giudea, e avevano necessità di essere ospitati da qualche persona amica. Gli Ebrei, infatti, avevano, nelle case, delle stanze più ampie dove avvenivano le riunioni familiari e la preghiera comune, e le cedevano volentieri a quelli che peregrinavano per la Pasqua.
Gesù Cristo, conoscendo già l’imminente tradimento di Giuda, non volle che egli sapesse in anticipo il luogo del suo convegno pasquale, affinché non avesse potuto ordire una congiura con i principi dei sacerdoti, e disturbare la festa del suo amore. Ordinariamente era proprio Giuda che si occupava delle necessità temporali degli apostoli, ma questa volta Gesù incaricò Pietro e Giovanni di trovare un cenacolo ospitale e preparare la Pasqua. Egli li mandò, dando loro delle indicazioni per rintracciare la persona amica, e fece così perché Giuda non avesse potuto conoscerla precedentemente.
Le indicazioni che Gesù diede a Pietro e a Giovanni, per quanto semplici, mostravano che egli conosceva tutto antecedentemente; essi avrebbero incontrato un uomo che portava una anfora d’acqua; dovevano dunque dirigersi verso la fontana pubblica. Il Redentore sapeva che avrebbero trovato non un uomo qualunque, ma il servo di una famiglia conosciuta e amica. Forse il cenacolo era di proprietà di uno dei suoi amici occulti, forse di Nicodemo, ed Egli, delicatamente, non volle comprometterlo. Giuda avrebbe potuto denunciarlo, e se avesse ordito la cattura proprio nel cenacolo, avrebbe causato un disturbo grandissimo al padrone del luogo.
La delicata, divina signorilità di Gesù gli faceva evitare qualunque penosa sorpresa a colui che l’avrebbe ospitato.
L’immediata condiscendenza del padrone della casa mostra che egli era generoso e affezionato al Redentore, e perciò gli apostoli poterono preparare sollecitamente quanto occorreva alla cena.
Calata la sera, cioè verso le sette, quando già il cielo era tutto oscurato e comparivano le stelle, Gesù si recò al cenacolo con i suoi discepoli, cominciando, prima di tutto, la cena legale dell’agnello, secondo i riti comandati.
Quella cena era come una preparazione al grande banchetto d’amore che Egli stava per istituire; sebbene vi si mangiasse era un rito di preghiera e di riconoscenza a Dio, e potremmo dire era come una meditazione sui benefici fatti da Dio al suo popolo. Verso la fine del banchetto pasquale, il volto di Gesù si atteggiò ad una grande tristezza e, rivolto ai suoi cari, disse: In verità vi dico che uno di voi mi tradirà, uno che mangia con me. Era il richiamo che faceva a Giuda perché si fosse pentito del suo orribile peccato e non l’avesse consumato. Gesù non poteva tollerare che al suo banchetto ci fosse un’anima in disgrazia di Dio e, nel suo infinito amore, cercò di farlo ritornare in sé. Non parlò più esplicitamente per carità, e volle che Giuda stesso avesse confessato il suo peccato, pentendosene.
In un banchetto familiare, l’intimità dell’amore è più profondo e più confidenziale; la parola accorata di Gesù fu quindi, per gli apostoli, come un colpo di folgore. Si rattristarono, e cominciarono a domandargli tutti: Sono forse io? Lo domandò anche Giuda – come ci dice san Matteo (26,25) –, per non svelarsi, rendendosi sospetto, ma Gesù non volle parlare a tutti più esplicitamente, e determinò solo che era uno dei dodici. San Matteo dice che parlò a Giuda chiaramente, ma senza farne accorgere agli altri, com’è evidente dal contesto; Giuda, però, rimase impassibile; per questo Gesù Cristo soggiunse quelle terribili parole: Guai a quell’uomo per cui il Figlio dell’uomo sarà tradito; sarebbe stato meglio, per quest’uomo, che non fosse mai nato. Volle scuotere il cinismo ripugnante del traditore per non privarlo di un’ultima grazia e, almeno col timore, tentò di farlo pentire, ma inutilmente; egli s’era come impietrito nel suo peccato.
L’annuncio del tradimento addolorò immensamente gli apostoli, e li predispose indirettamente ad un maggiore raccoglimento interiore. Li concentrò nel divino Maestro con un amore più tenero, e li raccolse in un certo esame di coscienza sulle responsabilità che potevano avere; questo concorse a prepararli al gran dono che Gesù stava per fare loro. Con la semplicità che il Signore ha in tutte le sue grandi opere, il Redentore prese il pane e, dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede a tutti, pronunciando una parola onnipotente che lo transustanziò nel suo Corpo divino: Questo è il mio Corpo. Poi prese il calice col vino, rese grazie a Dio per il beneficio che concedeva a tutti, e lo distribuì a tutti perché lo bevessero, dicendo: Questo è il mio Sangue del Nuovo Testamento, il quale sarà sparso per molti.
Poche parole, pochi momenti, bastarono a creare il miracolo più grande di amore.
Gli apostoli quasi non se ne accorsero, ma non poterono non sentire in loro una nuova vita. Erano tutti congiunti al loro Maestro come un solo corpo e un’anima sola; erano il Corpo mistico di Lui, avendo in loro la sua vita; erano innanzi al Padre celeste come creature nuove, illuminate dalla presenza del loro Redentore. Egli era a mensa come tutto trasfigurato, ineffabile nel suo sguardo di infinita carità, Sole divino che irradiava nei suoi cari! Quali momenti! Nessuna madre ha avuto mai simile tenerezza per i suoi figli, e li ha sentiti così carne della sua carne e sangue del suo sangue. Nessuna effusione d’amore ha potuto raggiungere questa che dona la vita del Redentore come vita nostra!
Nell’Eucaristia, Gesù è Vittima d’amore e Vita delle anime.
Gesù Cristo non donò un simbolo del suo Corpo e del suo Sangue, ma una Realtà sostanziale; si offrì veramente prima di offrirsi sulla croce, poiché donò il suo Corpo e il suo Sangue prima al Padre, ringraziandolo, e poi ai suoi cari, rendendolo loro cibo e loro bevanda.
Sarebbe stato assurdo dare il pane e il vino come simbolo e ricordo della sua morte, poiché non si rappresenta e non si ricorda la morte con un banchetto.
Egli si diede veramente e sostanzialmente come Vittima d’amore e come Vita delle anime, e mostrò, in questo, che volontariamente si offriva alla morte sul Calvario. Nessuno gli poteva togliere la vita senza la sua volontà, e la sua volontà d’immolarsi fu così piena e potente che anticipò l’immolazione nel Sacrificio eucaristico.
Si donò sostanzialmente, e quando la perversità umana gli pose le mani addosso e fece scempio del suo Corpo, non trovò che le sue spoglie mortali, cariche dei nostri peccati; Egli aveva già donato nell’amore il suo Corpo e il suo Sangue, conservando su di essi la sua piena padronanza. È una cosa ineffabile, degna di Dio!
Gesù Cristo soggiunse che non avrebbe più bevuto del frutto della vite sulla terra, fino a quando lo avrebbe bevuto nuovo nel regno di Dio.
Con queste parole annunciò la sua morte, dicendo che quella era l’ultima sua cena, e annunciò la sua risurrezione, dicendo che l’avrebbe di nuovo bevuto con loro nel trionfo sulla morte, col quale avrebbe inaugurato il regno di Dio. Misticamente, Egli forse fece un’allusione ai tempi di un rinnovato amore degli uomini verso di Lui e di una più grande effusione della sua carità verso di loro; l’amore avrebbe come rinnovato quei momenti di semplice intimità, e le anime lo avrebbero sentito tanto presente nel Banchetto della vita, da riguardarlo quasi come donato nuovamente loro, in un’effusione di carità singolare, per preparare il regno di Dio.
È un’intuizione che può ricavarsi dalle parole di Gesù, se si pensa alla dimenticanza obbrobriosa nella quale gli uomini hanno avuto l’Eucaristia. Certo, il regno di Dio sarà il frutto di un rinnovato Amore eucaristico, poiché dovrà essere una glorificazione piena di Dio e della sua Chiesa, ed è un rinnovamento di vita interiore, secondo la parola di Gesù: Il regno di Dio è dentro di voi.
Si può dire che la preghiera che la Chiesa fa da venti secoli, recitando il Pater noster, sia l’aspirazione a questo regno d’amore e ne sia il programma:
Padre nostro che sei nei cieli: ecco il riconoscimento di Dio contro le aberrazioni dell’apostasia.
Sia santificato il tuo nome: ecco lo splendore del culto, rinnovato nella Chiesa non come semplice fasto liturgico, ma come adorazione di Dio in spirito e verità.
Venga il tuo regno: ecco il sospiro ai beni eterni, e il desiderio della gloria di Dio e della salvezza delle anime nel fervore dell’apostolato.
Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: ecco lo splendore della santità della vita, tutta modellata sulla Legge di Dio.
Donaci oggi il nostro pane quotidiano: non tanto il pane del corpo che è in sovrappiù, ma quello eucaristico, quotidiano in modo che ogni anima lo riceva ogni giorno e ne sia come saziata.
Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori: ecco le armonie della carità e della pace universale, frutto dell’Eucaristia che unisce i cuori in una sola vita e in un sol cuore.
Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male: ecco lo sforzo e il desiderio di tutti nel togliere gli scandali e nel purificare il mondo dall’obbrobrio dell’impurità.
Da venti secoli, la Chiesa recita il Pater e questa preghiera diventerà il programma del Pontefice dell’amore, programma universale com’è universale questa bellissima e placida preghiera.
Gli uomini non potranno non sentirne l’appello, e correranno a Gesù, banchetto di vita, per cibarsi di Lui, per sentirlo presente in una fede vivissima, per amarlo con tutto il cuore e per glorificare in Lui e per Lui il Padre.
L’Eucaristia è la più grande testimonianza della Realtà di Dio, è il Sacrificio che sta al centro del culto e che dona al Signore una gloria infinita; è il segreto dell’unione a Gesù Cristo e della nostra sottomissione alla divina volontà, è il Cibo d’amore del nostro esilio, è il vincolo della carità universale, ed è l’ideale del bene e dell’elevazione dell’anima sopra tutte le suggestioni del mondo, del demonio e della carne.
Il regno di Dio, quindi, e la restaurazione del mondo non possono sussistere in un trionfo politico, esterno e materiale, ma nell’intensità del dono eucaristico se lo immaginassimo in un trionfo politico, non saremmo dissimili dagli Ebrei che sognavano, nel Messia, un dominatore terreno. Deve dilagare talmente l’amore eucaristico da rendere tutta la Chiesa Banchetto di vita; allora solo il male rimarrà vinto, e Gesù starà in mezzo all’umanità come fu nella cena degli apostoli, ma in un modo nuovo cioè invisibilmente, per la Chiesa e nella Chiesa, Centro della vita, Vittima di carità, Legame di pace fra tutti i popoli. È un momento del quale si vede già l’aurora, e che bisogna affrettare con i sospiri del nostro amore.
Vane proteste d’amore e realtà di un’agonia immensa.
Finita la cena, Gesù recitò l’inno, cioè i salmi, dal 114 al 117, insieme con gli apostoli, per ringraziare il Padre, e si avviò al monte Oliveto per passarvi la notte in orazione. Gli apostoli lo seguivano, ignari di ciò che avevano ricevuto e della tempesta che si addensava sul loro capo. Non erano ancora uomini di orazione, e la tentazione avrebbe potuto vincerli facilmente; perciò Gesù Cristo li premunì contro il pericolo dicendo: Tutti sarete scandalizzati per me in questa notte, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e si disperderanno le pecorelle.
Egli accennò a quello che sarebbe avvenuto, per eccitarli alla vigilanza e alla preghiera, perché, se avessero pregato, non sarebbero stati preda della tentazione. Ma conosceva che non avrebbero pregato, e che sarebbero fuggiti tutti in preda allo spavento e alla delusione, e lo prevenne loro, almeno per renderli guardinghi nei pericoli che avrebbero incontrati. Soggiunse poi subito che, risuscitato da morte, li avrebbe preceduti in Galilea, per non contristarli interamente, e per dar loro un motivo di fedeltà al suo amore. Con delicatissima arte di carità, Egli non disse esplicitamente che sarebbe morto, ma incluse, per così dire, l’annuncio ferale in quello della risurrezione, affinché non si fossero sgomentati. L’intimità della cena, e soprattutto il Dono eucaristico ricevuto, aveva acceso nel loro cuore un amore sensibile verso di Lui, Maestro divino, ed Egli non volle dar loro solo un annuncio di morte.
Pietro, più di tutti, capì l’allusione chiara fatta ad un imminente pericolo di infedeltà e, credendosi sicuro del proprio amore, protestò che non si sarebbe scandalizzato, anche se tutti lo avessero fatto; Gesù Cristo invano gli replicò che egli lo avrebbe rinnegato tre volte prima che il gallo avesse cantato la seconda volta, cioè prima dell’alba; Pietro credé di avere il coraggio di dare anche la vita per Lui e, fondandosi sulle proprie forze, protestò che non lo avrebbe rinnegato, avesse dovuto pur costargli la morte. Anche gli altri dissero lo stesso.
È profondamente psicologico: quando il pericolo è lontano e l’entusiasmo è acceso, allora sembra insignificante, e la volontà crede di essere invincibile; l’entusiasmo fa misurare esageratamente le proprie forze, e fa svalutare il pericolo come cosa da nulla. Appena però si è di fronte alla realtà, la volontà è sopraffatta dal pericolo, perché si trova disarmata. Pietro ascoltava, in quel momento, la voce del proprio amore sensibile, e gli sembrò che fosse invincibile; non si premunì spiritualmente contro il pericolo, anzi lo considerò con disprezzo e si trovò, poi, innanzi ad un assalto che lo sgomentò.
Gesù Cristo andò, pregando, all’orto del Getsemani, un oliveto dov’era solito recarsi. Fece rimanere all’ingresso i suoi apostoli, perché la pena che stava per subire non li avesse sconvolti, e si addentrò con Pietro, Giacomo e Giovanni, chiamandoli come aiuto di preghiera nella sua agonia interiore. Egli era come smarrito in un grande dolore, e sommamente angosciato; sembrava atterrito e gli apostoli non se ne sapevano spiegare la ragione. Vedeva lontano il perfido Giuda che preparava con i principi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei l’assalto notturno e la sua cattura, e questo loatterriva, misurando tutte le pene cui andava incontro, e lo angosciava la considerazione della cattiveria del suo apostolo.
Il terrore e l’angoscia, in Lui, non erano un presentimento vago, come potrebbe avvenire in noi, erano una visione chiara che gli dava una pena mortale, perciò disse ai suoi prediletti: L’anima mia è triste sino alla morte, trattenetevi qui e vegliate.
L’agonia di Gesù.
D’un tratto, lo avvolse come una caligine opprimente; la divinità si nascose ed Egli rimase come solo, carico dei peccati degli uomini di tutti i secoli passati e futuri, fino al termine del mondo; si sentì, anzi, caricato di tutte le prevaricazioni, perché Egli, glorificazione del Padre, le doveva tutte riparare con le sue pene.
Egli doveva redimere l’uomo, ancora capace di salvezza, e doveva anche sostituire le mancate adorazioni degli angeli perduti e delle anime dannate. Si sentì, quindi, come immerso negli orrori del medesimo Inferno.
Fu una pena ineffabile, alla quale si aggiunsero gli assalti furenti di satana che tentava di vincerlo e allontanarlo, col terrore, dal pensiero di riparare per i peccati degli uomini. Si sentì sopraffatto, cadde bocconi per terra, e supplicò il Padre di allontanare da Lui quell’ora, cioè quel momento di profondo smarrimento, e il calice del dolore che lo attendeva.
Il Sangue cominciò a scorrergli come abbondante sudore, e l’anima quasi affiorava con esso alla superficie del corpo per distaccarsene, tanto era immenso il dolore morale, il più terribile di quanti ne soffrì.
Sentendosi venir meno, domandò che passasse da Lui quell’angoscia che gli stava per togliere la vita, e lo domandò non solo perché volle sentire tutto il peso dell’angustia, ma perché voleva ancora vivere per patire. È un mistero profondissimo: l’agonia gli toglieva la vita, ed Egli ripugnava naturalmente al dolore e alla morte; l’amore, poi, gli faceva desiderare ancora la vita per darsi al dolore della morte. I peccati dei quali si sentiva caricato gli davano un dolore spasimante, e avrebbe desiderato esserne liberato, ma l’amore, l’infinito suo amore gli faceva desiderare di non esserne liberato, perché Egli solo poteva sopportare quel peso spaventevole. Si prostrò per estremo abbattimento; adorò per immenso amore; domandò di fare la volontà del Padre per compiere divinamente la grande espiazione, e cercò avidamente dei cuori che l’avessero aiutato a riparare e ad amare. Andò dagli apostoli e, ahimè, li trovò addormentati!
Il sonno degli apostoli.
Addormentati profondamente, quando avrebbero dovuto pregare con Lui… che pena! Addormentato Pietro che pur aveva fatto tante proteste d’amore! Che cos’era quel sonno? Naturalmente era causato dalla cena fatta poco prima, dall’umidità della notte, e dalla stessa tristezza, perché l’anima, affranta, sente quasi il bisogno di sfuggire dal corpo, e la tristezza produce un rilassamento nervoso che può causare il sonno; ma spiritualmente quel sonno era un segno troppo chiaro d’incomprensione del momento terribile, e perciò Gesù se ne lamentò con Pietro amaramente: Simone, tu dormi? Non hai potuto vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è inferma.
Queste ultime parole rivelano tutta la carità di Gesù nel rimproverare i suoi cari, e ci fanno vergognare del modo col quale noi trattiamo e giudichiamo gli altri. Il dolcissimo Redentore non volle contristare gli apostoli e Pietro in particolare, trattandoli da noncuranti né volle umiliare Pietro, rimbeccandogli le sue spavalde proteste di fedeltà; lo scusò, e scusò la debolezza di tutti, dicendo che lo spirito loro era sincero e pronto, ma la carne era debole, e dovevano sostenerla con la preghiera e la vigilanza.
O mio Gesù, quando penso che, nel rimproverare anche giustamente gli altri, io scelgo le parole più mordenti, e ricorro spontaneamente alla ripicca per vincerli, mi vergogno di me! Oh se sapessi avere la tua delicatezza, e se sapessi compatire in tutti la debolezza della natura inferma! Perché noto con tanta facilità le miserie altrui e non le nascondo? Perché non son delicato fino alla tua divina signorilità, per non contristare i tuoi figli? Quanto è ripugnante, ai tuoi occhi, ogni mia severità, ogni ripicca, ogni spietatezza, e come ti ferisco il Cuore con la mia severità, io, che sono peccatore e ho tanto bisogno del tuo compatimento!
Gli apostoli si scossero un po’, ma non si alzarono, come avrebbero dovuto fare; s’illusero di poter pregare nella stessa posizione che avevano presa, e si riaddormentarono. Gesù tornò al suo posto di orazione, ripeté le stesse accorate parole, e ritornò dai suoi apostoli, trovandoli di nuovo addormentati. Questa volta i loro occhi erano aggravati e non riuscivano a tenerli aperti; non sapevano più che cosa rispondergli perché non avevano la piena coscienza di loro stessi; e Gesù se ne ritornò al suo posto e per la terza volta pregò, angosciato e solo.
Quale conforto o qual aiuto poteva sperare dai suoi cari se essi dormivano? Andò la terza volta da loro, ma dormivano ancora profondamente! Quale contrasto doveva essere il ritmo del Cuore angosciato di Gesù e il russare dei suoi apostoli!
Un palpito d’amore e una miseria estrema d’incomprensione, un’ansante carità e un riposo greve, incapace di destarsi ai richiami dell’amore angoscioso! Ormai non c’era più da pregare, non si poteva più arrestare il corso degli eventi penosi che la preghiera avrebbe potuto modificare. Perciò Gesù, svegliandoli di nuovo, disse: Dormite pure e riposatevi; basta così, l’ora è venuta… Ecco, colui che mi tradisce è vicino.
Se gli apostoli avessero pregato veramente, Giuda si sarebbe arrestato sull’estremo precipizio? Lo si può supporre, perché la preghiera ha un’onnipotenza contro il male che non ha qualunque forma di attività. L’aver detto Gesù: Dormite e riposatevi, basta così, l’ora è venuta, fa intendere chiaramente che quell’ora poteva essere ritardata o eliminata dalla preghiera. Egli voleva che avessero pregato per il loro scellerato compagno, ed essi, dormendo, lasciarono libero il campo ai demoni che lo infestavano. Gesù Cristo avrebbe potuto arrestarlo sull’abisso con la propria divina preghiera, ma volle la preghiera dei suoi cari, e si può dire che ne aveva bisogno, perché Egli non ci salva senza il nostro concorso, e ci vuole redentori di anime con Lui stesso.
Se ponderassimo questo, come saremmo in orazione con Gesù! Egli sta ancora in agonia nel tabernacolo del suo amore, ci sta gemendo per quelli che non lo curano e per quelli che lo tradiscono, profanandolo. Egli, Cibo di vita, anela a donarsi e geme nel non trovare anime che lo ricevano perché il suo modo di vita sacramentale non può appagarsi che cibando.
Egli ci chiama intorno a sé perché noi preghiamo con Lui e, vivendo del suo amore, diventiamo come specchi che lo riflettono nelle anime. Non possiamo dunque addormentarci nelle nostre miserie e nella nostra indifferenza, e lasciarlo praticamente solo.
Quale potenza acquista la nostra preghiera elevata a Dio con Gesù! Che cosa facciamo quando lo visitiamo o lo adoriamo nell’Esposizione solenne? Preghiamo con Lui che adora, ringrazia, ripara e intercede per le anime. Dunque non è indifferente, per noi, il vivere innanzi al santo tabernacolo.
Gli apostoli, invece di pregare, dormirono, e il secondo sonno fu per essi più grave del primo. Se invece di vigilare innanzi a Gesù ci assonniamo nei nostri pensieri, e se, risvegliati dal rimorso, continuiamo a dormire, preferendo le nostre comodità, quanto dolore daremo a Gesù! Dobbiamo vigilare e pregare per non cadere nella tentazione; Gesù Cristo e la sua Chiesa sono maltrattati dal mondo, e noi potremmo sentirci scossi nella nostra fedeltà se non preghiamo, potremmo seguire lo spirito del mondo, o addirittura fuggire dal nostro adorabile Redentore e unirci ai suoi persecutori. Che cosa più soave, per noi, quanto il vigilare innanzi a te Sacramentato, o Gesù? Che cosa più doverosa quanto il farti compagnia? Quanto peseranno, nel giorno del Giudizio, le ore che avremmo potuto passare con te, e che abbiamo trascorse, invece, nelle miserie di questa terra!
L’amore tradito, catturato e condannato.
Giuda Iscariota, quando uscì dal Cenacolo, andò dai sacerdoti, per avvertirli che Gesù si avviava al Getsemani e che era quello il momento opportuno per catturarlo. In un orto, nella notte profonda, era impossibile che potesse suscitarsi un tumulto. I principi dei sacerdoti arruolarono un forte nerbo di guardie, armate di spade, e di servi del tempio, armati di bastone; ognuno procedeva con cautela e, nello stesso tempo, con la spavalderia mista al timore di qualche sorpresa che si ha quando si va incontro ad un pericolo, tra le tenebre della notte. Ognuno credeva di essere un eroe e ognuno andava avanti con grande paura; a questo si aggiungeva, almeno per alcuni, quell’inconscio timore che il Redentore fosse un essere straordinario o addirittura il Messia e quindi qualche nascosto timore di commettere un aggressione al Mandato da Dio.
Camminarono cautamente, al lume di lanterne e di fiaccole e, avanti a loro, andava il traditore per dare il segnale convenuto, ossia un bacio di saluto al Redentore, per farlo catturare con sicurezza, senza timore di equivoci. La turba rimase alquanto indietro, nascosta come poteva fra gli alberi, e Giuda si avanzò, dicendo: Ti saluto, o Maestro; e lo baciò.
Che cosa dovette sentire Gesù in quel momento! Quale profondo dolore gli attraversò il Cuore! Un suo apostolo, uno di quelli che avrebbe dovuto annunciarlo a tutta la terra, lo tradiva con un bacio, lo rinnegava, lo consegnava alla morte! È una cosa che fa fremere, e che suscita orrore!
Eppure quante volte Gesù è tradito con un bacio! La tensione disordinata verso una creatura, il bacio di un amore peccaminoso, la brama di un diletto obbrobrioso, il convergersi disordinato verso l’oggetto dei peccati mortali sono baci di tradimento che consegnano Gesù alla morte in noi stessi, crocifiggendolo alla nostra carne.
Chi potrà avere il cuore di tradire così l’amore di Gesù? O mio Redentore, io non voglio darti che baci d’amore, e voglio immolarmi io per te, rinunciando a tutto ciò che è terreno. Donami una grande purezza, una purezza integrale, affinché io non venga a te col tradimento nel cuore, ma ti abbracci, o mio Signore, con immensa tenerezza, tutelando, col mio amore, la tua gloria contro tutti quelli che da ingrati ti avversano.
Appena Giuda ebbe baciato il Maestro divino, gli sgherri si avanzarono, gridando, gli gettarono le mani addosso e lo catturarono. Il trambusto fu grande, e nel trambusto uno degli astanti, cioè Pietro, sfoderata la spada, ferì un servo del sommo sacerdote, mozzandogli un orecchio. Fu l’unico atto di coraggio e di difesa che fecero gli apostoli; subito dopo, quando si accorsero che, insieme col Redentore, gli sgherri avevano il mandato di catturare i suoi seguaci, fuggirono tutti.
San Marco cita una speciale circostanza che fa vedere quale terrore avesse invaso i seguaci del Redentore: un giovanetto, sentendo, da qualche casa vicina, il vociare, e lo strepito delle armi scese dal letto come si trovava per curiosare e, per la fretta, non si vestì ma si avvolse nel lenzuolo. Si aggirò mezzo stralunato, e cercò di avanzarsi dove la turba era più agitata, per osservare meglio; le guardie notarono quel suo fare impacciato e circospetto e lo afferrarono; ma egli, lasciato nelle loro mani il lenzuolo, se ne fuggì nudo com’era.
La turba, fra insulti e percosse, condusse Gesù in casa del sommo sacerdote, dove s’erano radunati i sacerdoti, gli scribi e gli anziani, per condannarlo con una parvenza di legalità. Pietro, passato il primo sbigottimento, lo seguì da lontano, e poté entrare fin dentro al cortile della casa. Per non dare sospetti, e perché faceva freddo, si mise anche lui intorno ad un fuoco acceso nel cortile, e si scaldava insieme ai servi. Era naturale che solo i servi di guardia alla casa si scaldassero al fuoco, costretti com’erano a stare all’aperto; le persone più importanti, invece, facevano ressa nelle sale del palazzo.
In processo con i falsi testimoni.
I principi dei sacerdoti intanto, dopo le prime sommarie domande fatte a Gesù, si accorsero che il processo non aveva consistenza, per quanto avessero cercato d’assoldare falsi testimoni. Questi, infatti, non subornati sufficientemente, per la fretta e il precipitare degli eventi si contraddicevano, e la loro testimonianza non aveva valore.
La falsa testimonianza che accusava Gesù di bestemmia contro il tempio sarebbe stata gravissima, perché si sa che Geremia fu condannato a morte per aver predetto la rovina del tempio (cf Ger 26,6), ma i testimoni non si accordarono sulle parole pronunciate da Gesù. D’altra parte il sommo sacerdote e gli altri giudici avrebbero voluto qualche accusa più grave e infamante contro il Redentore, perché volevano condannarlo con tale obbrobrio, da sfatare definitivamente il suo prestigio in mezzo al popolo. Speravano che Egli, rispondendo, si compromettesse, e perciò lo interrogarono prima, e poi gli fecero ascoltare tante false testimonianze.
Ma Gesù taceva. Che cosa avrebbe potuto rispondere?
Egli, Verità per essenza, si trovava innanzi alle menzogne più sfacciate e, se avesse voluto rispondere, avrebbe dovuto condannare nella maniera più severa; tacque, pregando e riparando innanzi al Padre le menzogne dei giudizi degli uomini.
Il giudizio si metteva male e i sacerdoti temettero di non poterla aver vinta, quando il sommo sacerdote ebbe un’idea infernale: si ricordò che Gesù tante volte aveva affermato di essere il Messia, il Figlio di Dio, e pensò d’interrogarlo in proposito con tutta la solennità sacerdotale; se Gesù avesse risposto che non lo era, si sarebbe sfatato da se stesso e, se l’avesse affermato, sarebbe stato convinto di bestemmia.
Il sommo sacerdote era più sicuro di quest’ultima supposizione, e sperava di avere nelle mani un’accusa gravissima che avrebbe giustificato la condanna a morte. Alzatosi, perciò, disse a Gesù, con tono solenne di voce, in modo da farsi udire da tutti: Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto? Improvvisamente si fece un silenzio solenne nella sala; Gesù s’illuminò d’una gran luce che quegli sgherri non poterono vedere, e rispose con tutta la maestà della divina verità: Io lo sono, e vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della potenza di Dio, e venire sulle nubi del cielo.
Non poté negare quel che Egli era, e fece un’allusione al Giudizio universale futuro, nel quale Egli sarebbe stato non prigioniero avvilito, ma Giudice d’infinita potenza e maestà per scuotere quei cuori induriti. Egli sapeva bene che le sue parole l’avrebbero fatto condannare; sapeva che quei giudici iniqui non avrebbero fatto nessun conto della sua minaccia d’un giudizio severo, anzi, proprio per questo, l’avrebbero maggiormente disprezzato, ma non volle tacere la verità, affinché quegli infelici non fossero stati privati di quell’ultima grazia e di quell’ultimo richiamo. Gesù Cristo, poi, non fece solo un’affermazione, ma la rese luminosa con uno straordinario accento di verità, e la dimostrò con la medesima maestà con cui la disse.
Gesù condannato a morte.
Il sommo sacerdote non volle altro e, con l’ipocrita mossa, stracciatesi le vesti in segno di un dolore che non aveva, perché, anzi, esultava di gioia maligna, disse: Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Voi stessi avete udito la bestemmia. Che ve ne pare? Il sommo sacerdote tradì tutta la propria malizia e quella del sinedrio: egli non cercava i testimoni per giudicare con giustizia ma per condannare; non voleva che testimoni di accusa e, non avendoli trovati, esultava che le parole di Gesù gli dessero il pretesto desiderato per condannarlo. Si appellò all’opinione di tutti non per domandare un parere, ma per rendere più tumultuosa la condanna e più sicura l’esecuzione. Il suo animo, bieco e livido d’invidiosa rabbia, affiorava tutto in quel suo gesto e in quelle sue parole.
Tutti gli astanti condannarono Gesù come colpevole di morte e, liberi ormai d’inveire contro di Lui, aizzati dal disprezzo del sommo sacerdote, cominciarono a sputargli addosso, a schernirlo, e percuoterlo con i pugni e a schiaffeggiarlo. Quale notte dolorosa fu quella per Gesù, e con quale amore per il Padre e per l’umanità Egli accolse quei crudeli maltrattamenti! Soffriva orribilmente, ma ognuno di quegli scherni e di quelle percosse era indirettamente una conferma della sua grande affermazione: Io sono il Cristo, il Figlio di Dio. La verità non era soffocata da quelle ingiurie e da quei tormenti: era come fucinata nel dolore, e splendeva più bella innanzi all’universo. I testimoni della menzogna percuotevano Colui che era la Pietra angolare della creazione e della redenzione, e ne facevano quasi sprigionare le fulgenti faville della verità.
In quel momento era uno solo il testimone veritiero: Gesù che, a costo dei suoi dolori, affermava il compimento delle divine promesse e, gemendo nell’angustia, faceva realizzare in sé gli annunci dei profeti. Gli sgherri, percuotendolo dopo avergli bendato gli occhi, gridavano fra le pose del più profondo scherno: Profetizza! Ed Egli, in realtà, accomunava in sé tutte le profezie, e mostrava la splendida luce della verità tra i bagliori del suo Sangue!
La notte del Giovedì Santo si rinnova nella Chiesa perseguitata nei secoli.
La scena di quella dolorosa notte si è rinnovata e si rinnova in tutti i tempi sul Corpo mistico del Re d’amore, sulla Chiesa. La perversità umana, spinta dolorosamente dai ministri infedeli del santuario, inveisce contro la Chiesa e tenta di darle la morte.
La Chiesa passa nel mondo, beneficando; questo nessuno potrà mai onestamente negarlo; per quanto alcuni suoi figli o ministri possano essere indegni, è innegabile che essa è madre di civiltà, di virtù e di bontà. Eppure è continuamente avversata, catturata e condannata, proprio perché divina.
Nel mondo è notte di gelo, e la famosa scienza e civiltà è appena come il cippo che ardeva nel cortile di Caifa. Intorno a questo fuoco che non dissipa la notte, ci sono i servi della terra, quasi sempre, e i rinnegatori che giurano di non conoscere l’eterna Verità, come lo giurò Pietro.
Il sacerdote infedele rende falsa testimonianza, e il popolo maltratta il Signore nella sua Chiesa, fatta oggetto di bestemmia, di scherni e di persecuzioni.
La scena disgustosa è continua, e fa piangere di amarezza! Non si cerca la verità ma la menzogna per condannare la verità; è un dato di fatto! La Chiesa geme, tace, soffre e, pur confessando ad ogni costo la verità, non ha le sue speranze sulla terra e attende con fede il giorno del supremo Giudizio e il trionfo del suo Re! Con quale amore dovremmo noi testimoniare per essa nel mondo! Eppure, dolorosamente, quante volte ci lasciamo intimidire e seguiamo l’andazzo del male, protestando, con la nostra vita, di non aver nulla in comune con Gesù Cristo!
Pietro rinnega Gesù.
Rassomigliamo tante volte a san Pietro, pieno d’amore verso il suo Maestro, capaci di entusiasmo nei momenti di calma, e avviliti dal timore e dal rispetto umano nei momenti di lotta. Ci accomuniamo al mondo per riscaldarci un po’ alle sue fiamme, quando la pena ci sopraffa, e non pensiamo che quelle fiamme ci bruciano, e che, posti nel pericolo, siamo capaci di rinnegare praticamente Gesù.
L’episodio penoso di san Pietro dev’esserci di scuola. Egli aveva seguito Gesù da lontano, non avendo avuto il coraggio di esporsi al pericolo d’essere catturato anche lui. Aveva un terribile panico delle guardie, ma non si sentiva di abbandonare il Maestro, e lo seguì in modo, secondo lui, da non compromettersi. Eppure, se gli avesse reso testimonianza con convinzione ed energia, avrebbe forse potuto mutare le sorti del giudizio. Entrò con timore fin nell’atrio della casa sacerdotale, e si pose al fuoco per scaldarsi con i servi, sperando di non essere notato. Bella testimonianza che rendeva, in verità!
Entrava per celarsi, si accomunava agli altri, e guardava intorno, come smarrito, quello che avveniva. Un timor panico più forte cominciò a prenderlo quando ascoltò gli schiamazzi della turba e del sinedrio e, poiché egli aveva mozzato l’orecchio del servo del pontefice, temette di poter essere chiamato al rendiconto.
Una delle serve, con quell’intuito che è comune alle donne, e con la penetrazione che le dava l’abitudine di squadrare quelli che entravano in casa, notò il turbamento di Pietro e, fissatolo per scrutarlo meglio, disse: Anche tu eri con Gesù Nazareno. Fu un colpo di folgore per Pietro, ma cercò di dissimulare e finse di non aver capito. Appena la serva si allontanò, spontaneamente si alzò e uscì davanti al cortile per andarsene. In quel momento il gallo cantò, ma egli non vi fece caso: era troppo agitato dal suo timore per poterci badare. Il cuore, però, non gli permetteva di lasciare la casa, perché voleva vedere dove andava a finire il giudizio, e ritornò sui suoi passi.
La serva, affaccendata com’era, non aveva insistito alla replica di san Pietro ma, ripassandogli di nuovo davanti, per non essere ritenuta come una sciocca, sicura di aver dato nel segno, disse agli astanti: Costui è uno di quelli. Pietro allora lo negò.
Ma gli astanti, sentendolo parlare in Galileo, gli dissero: Tu sei certamente uno di quelli, poiché sei Galileo. Non era più una donna che lo accusava, erano gli astanti, e Pietro, credendo di essere perduto, cominciò ad imprecare e a giurare, affermando di non conoscere quest’uomo del quale essi parlavano.
Il pianto di Pietro.
Era il colmo della viltà e della negazione. Subito dopo il gallo cantò per la seconda volta, e Pietro, ricordando le parole che gli aveva dette Gesù, pianse. Evidentemente la terza negazione lasciò nel cuore di san Pietro un intenso rammarico; il rimorso lo bruciava, e uno sguardo lanciatogli da Gesù – come ci dice san Luca (22,61) –, rese quel rimorso umiliazione profondissima e desiderio di riparazione.
Egli amava Gesù e, vedendolo ridotto tutto sputi e ferite, provò un senso di compassione e di pena indicibile. Era caduto per estrema fragilità; avrebbe voluto insorgere, confessare il suo Maestro e difenderlo, ma Egli ormai era condannato e non c’era più nulla da fare. Perciò cominciò a piangere amaramente, e ritornò sui propri passi affranto e desolato! Se invece di mescolarsi ai cattivi e scaldarsi al fuoco, avesse pregato, non sarebbe caduto. Volle mettersi nell’occasione, e ci stette indifferentemente, scaldandosi, mentre il Maestro divino era malmenato e soffriva. Si affidò alle sue forze, e queste non lo sostennero.
Noi siamo vili nel testimoniare il Cristo!
Perché siamo vinti tanto facilmente da un sogghigno, da una burla e da una parola stolta che ci si dice contro la fede o la Chiesa? Perché abbiamo una pietà e una fede superficiale, e ci mettiamo nelle occasioni con estrema leggerezza. È penosissimo pensare che i cattivi commettono il male con grande sfacciataggine, pur essendo per loro di obbrobrio, e che i buoni non sanno fare il bene con coraggio, sostenendo la loro fede innanzi agli scherni del mondo, pur essendo per loro un grandissimo onore. È necessario vincere l’impudenza del mondo col nostro disprezzo, e riguardare con grande scherno le sue vie che sono vie di morte.
Pensiamo che Gesù Cristo ha voluto essere caricato di obbrobrio innanzi a tutti per nostro amore, e che noi abbiamo il dovere di cancellare quest’obbrobrio con la nostra testimonianza d’amore. La Passione di Gesù continua nel mondo per la lotta che si fa a Lui nella Chiesa, e noi dobbiamo essere con Lui e non fuggire, come gli apostoli o, peggio, tradirlo come Giuda e rinnegarlo come Pietro. Dobbiamo andare contro il mondo che siede perennemente in tribunale nella notte dei suoi errori, e cerca di condannare Gesù. Questo capitolo del Vangelo ci dev’essere in questo di grande scuola.
Si radunano i nemici del Signore in conciliaboli per condannarlo a morte? E noi dobbiamo radunarci nei congressi e nelle assemblee dell’Azione Cattolica per farlo regnare. È la riparazione più bella alle congiure degli empi. Si crede sempre esagerato ciò che si fa per Gesù, come crederono esagerato l’atto pietoso della Maddalena. E noi diamogli tutto il nostro amore, infrangendo quasi il cuore come l’alabastro di Maria, e dandogli tutti i profumi della virtù. Come quell’unguento prezioso riempì la casa di profumo, così riempiremo noi la Chiesa, in onore di Gesù, delle fragranze della nostra vita cristiana.
Giuda va a vendere Gesù e lo tradisce per un vile guadagno? E noi diamo anche quel poco che abbiamo per accrescere il suo regno! Non cerchiamo il denaro ma le anime, e andiamo dai sacerdoti per avere da loro la ricchezza della nostra riconciliazione con Dio.
Gesù si lamenta nella Cena eucaristica che uno dei suoi lo tradisce? E noi andiamo al suo altare per riparare con l’amore i tradimenti che riceve da quelli che non lo ricevono, e vanno a vendere l’anima loro nelle riunioni mondane. Che gioia, per noi, poter consolare Gesù andando da Lui, e con quale amore Egli ci guarda quando espandiamo innanzi a Lui il nostro povero cuore! L’altare eucaristico: ecco la nostra meta nel pellegrinaggio terreno; ecco il nostro vero gaudio e il rifugio nelle nostre angustie. Non c’è ingratitudine più brutta quanto quella di star lontani da Gesù Sacramentato; non c’è dolore più amaro per il Redentore, che tutto ci si è donato!
Pietro fa il proposito di morire con Gesù, ma non lo mantiene; dorme nell’orto e lo rinnega nell’atrio del pontefice. Ripariamo questa colpa che si rinnova tante volte nelle anime consacrate a Dio: manteniamo le promesse fatte al Signore, e confessiamolo innanzi a tutti, senza assonnarci mai nelle nostre miserie e nelle nostre debolezze. Vigiliamo nella preghiera, e sosterremo la Chiesa nelle sue formidabili lotte.
Giuda tradì Gesù con un bacio, e noi ripariamo il tradimento che gli fanno i baci dell’impudicizia, baciando Lui nell’amore, e ripudiando ogni degradante dedizione alle creature. Chi oserebbe dare un bacio di peccato, sapendo che con quello tradisce il suo Redentore? Appena Giuda baciò Gesù, subito gli sgherri si avventarono contro il mansuetissimo Agnello, lo catturarono, e lo trascinarono al giudizio della menzogna e dell’iniquità. Così avviene nel mondo; l’impurità fa irrompere contro il Signore e lo espone alle derisioni ed al disprezzo. Conserviamoci puri come angeli, per testimoniare a Gesù il nostro amore invincibile.
La falsa scienza cerca false testimonianze contro la fede? E noi studiamo la fede con accuratezza per rendere testimonianza alla verità con piena coscienza. Un cristiano, ignorante nelle verità che professa, è già una falsa testimonianza della sua fede, perché non sa sostenerla contro le insidie dell’errore. Il mondo rinnega il Redentore, e noi acclamiamolo, cercandolo sopra tutte le cose, come nostra unica vita. I sacerdoti cattivi sfigurano Gesù, mostrando la fede nelle ombre della misera loro vita; lo Stato lo perseguita, colpendolo con le sue leggi anticattoliche come con schiaffi e con pugni; la falsa civiltà gli vela il volto, nascondendone la divinità e schernendolo come qualcosa di oltrepassato; le anime deboli lo rinnegano per rispetto umano, e noi glorifichiamo il nostro Redentore, difendiamolo, confessiamolo con le parole e con le opere.
Dobbiamo essere fedeli, veramente fedeli, ed essere, tutti, gli araldi del nostro Re, affinché Egli regni sulle anime nostre e su tutta la terra.
Don Dolindo Ruotolo, Mc 14,1-15,47