Commento al Vangelo della XXIX Domenica 2014

A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio

I farisei, temendo, col porre le mani addosso a Gesù, di suscitare nel popolo una rivolta, si consultarono insieme per trovare il modo di farlo capitare tra le mani dell’autorità romana. Ordirono, perciò, un inganno ben architettato, e lusingando Gesù sulla sua veridicità e lealtà, e sulla sua ferma intransigenza di fronte alla verità e al dovere, gli domandarono, per mezzo dei loro discepoli, se era lecito o no pagare il tributo a Cesare. Dopo l’occupazione romana della Palestina, ogni ebreo era costretto a pagare il tributo all’imperatore che, con nome generale, veniva chiamato Cesare. Questo tributo era odiosissimo per gli Ebrei, essendo il segno palese della perdita della loro indipendenza. Si pagava in moneta romana, sulla quale c’era l’effigie di Tiberio.

I farisei, sapendo che Gesù si proclamava il Messia, erano certi che egli avrebbe biasimato il pagamento del tributo; supponevano che il Messia dovesse essere un restauratore dell’indipendenza nazionale, e credevano che Gesù non potesse approvare il pagamento del tributo, senza rinnegare la sua qualità di Messia, alla quale credevano che tenesse per fanatismo e per illusione. D’altra parte pensarono che se Egli l’avesse approvato, sarebbe riuscito inviso al popolo, e che in ogni caso l’avrebbero costretto a smetterla. Per tutto questo insieme subdolo, Gesù, rispondendo, li chiamò ipocriti, smascherandoli così nelle loro intenzioni maligne. Per confonderli, poi, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo e, dopo che l’ebbero mostrata, chiese di chi era quell’immagine e quell’iscrizione. Alla loro risposta che era di Cesare, disse quelle memorande parole che li lasciarono stupefatti: Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

Circolando nel popolo la moneta imperiale di Roma, era evidente che la nazione sottostava di fatto a Cesare; il tributo si dava come concorso alle spese di amministrazione e, permanendo l’impero di Cesare, era giusto darlo a lui. Sotto qualunque sovranità, infatti, si pagano le tasse, perché esse sono parte dell’amministrazione comune e contributo ai vantaggi comuni che ne derivano; pagare le tasse non significa giustificare un sopruso, ma sottostare a una situazione di fatto; non si trattava di sapere se si poteva o non pagare, perché si doveva pagare; era dunque logico che si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare, cioè che si sottostesse a uno stato di fatto che non riguardava la coscienza, ma una necessità fiscale imprescindibile. Gesù soggiunse subito: Rendete a Dio ciò che è di Dio, per far riflettere al popolo che per non essere stato fedele al Signore, aveva avuto, come castigo, la dominazione straniera, e che, invece di pensare a ribellarsi a Cesare, dovevano piuttosto pensare a riconciliarsi con Dio.

Sotto qualunque dominazione, l’anima deve essere di Dio, e tributargli l’amore e l’onore che gli è dovuto; le condizioni politiche della nazione nella quale si vive non possono in nessun modo dispensare da questo dovere che è il principale; pagare o non pagare il tributo, dunque, non era una questione essenziale, ma era imprescindibile dare a Dio ciò che è di Dio, anche se si fosse dovuto urtare l’autorità di Cesare.

Il potere civile e religioso

Le parole di Gesù Cristo sono state in ogni tempo la regola dell’armonia del potere civile e di quello religioso; il potere civile ha le sue attribuzioni, ma esse sono limitate a ciò che è temporale, e sempre subordinatamente a quello che è spirituale. Il potere civile, strettamente parlando, non domina ma serve, perché è ordinato al bene comune e al bene individuale di quelli che formano la nazione; dovrebbe rappresentare un potere paterno in mezzo alla famiglia umana, con tutte le prerogative della potestà paterna. Ogni potestà viene da Dio, ed è assurdo pretendere che venga dal popolo; il potere civile rappresenta la divina provvidenza negli affari temporali, in quanto questi sono ordinati alla vita presente e a quella futura, il potere religioso rappresenta la divina autorità che domina tutto nell’amore, e guida le anime alla vita eterna, pur non prescindendo dalla loro condizione di vita sulla terra. Il potere religioso che è uno solo, di diritto divino, quello della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana è immensamente superiore a quello civile, e deve moderarlo nel suo esercizio, affinché non esorbiti e non diventi tiranno.

Rendere a Cesare ciò che è di Cesare, non significa riconoscere a Cesare un potere indipendente dal controllo materno della Chiesa, e tanto meno significa ammettere un’autorità che possa esigere di controllare la Chiesa, ma comporta solo il dovere di dare all’autorità civile il contributo che le spetta per l’amministrazione dello Stato, e di conseguenza osservarne le giuste leggi. Estendere le parole di Gesù oltre questi limiti significa alterarne il senso. Anche nel campo della legislazione, lo Stato non può superare i limiti dell’amministrazione temporale, di modo che è assurdo che esso presuma di dettare leggi che riguardano direttamente o indirettamente i valori morali o religiosi. È invalsa troppo la mania, spesso delittuosa, di presentare come legge qualunque capriccio o qualunque sopruso di chi governa. La legge non può ispirarsi che a quella di Dio, e non può prescindere dalle supreme direttive della Chiesa. Per questo nell’antico patto non fu Mosè che legiferò, ma fu Dio che gli dettò le leggi. I tempi sono mutati, la società si è confusa, le teste si sono annebbiate, ma questo non significa che si siano mutate le basi che reggono l’umanità. Cesare amministra, non crea e, come amministratore, deve sottostare alle supreme leggi di Dio, Creatore e Padrone di tutto, rispettare la Chiesa che lo rappresenta.

Si deve notare che i farisei non andarono direttamente a domandare a Gesù se era lecito pagare il tributo a Cesare, ma fecero andare da lui alcuni dei loro discepoli insieme a parecchi rappresentanti della setta degli erodiani, favorevoli al dominio di Roma, affinché Egli avesse parlato innanzi a testimoni già ammaestrati, i quali avrebbero potuto riferire alle autorità romane la sua risposta e comprometterlo. Era dunque una mossa politica la loro, una di quelle mosse delle quali purtroppo è intessuta la politica moderna. La menzogna anche sfacciata, l’inganno, la turlupinatura, e la miseria morale sono spesso la base della politica, e da questo si può misurare quanto essa è lontana da Dio; perciò, invece di idolatrare lo Stato, fino a crederlo unica autorità suprema, bisogna pensare, prima di tutto e sopra di tutto, a rendere a Dio ciò che è di Dio, prestando ossequio all’autorità della Chiesa. Questo è tanto più necessario oggi che dall’idolatria del cosiddetto popolo sovrano si sta passando all’idolatria dei dittatori e degli Stati totalitari, con immenso danno delle anime e specialmente della gioventù. Rendiamo a Dio quel che è di Dio, diamogli tutto il nostro cuore e tutta la nostra vita, perché tutto è suo, e tendiamo, con tutta l’anima nostra, alla vita eterna.  

Don Dolindo Ruotolo, Mt 22,15-21

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