La parabola dei talenti
Vigilare non significa rimanere in un’oziosa e snervante attesa, ma significa lavorare per la gloria di Dio e per il bene delle anime, e portare, alla presenza del Signore, un tesoro di meriti. Questa verità, fondamento dell’onesta e santa operosità, fu espressa da Gesù Cristo con la parabola dei talenti. Egli è il Padrone ricchissimo che ha fondato la Chiesa come campo di prova, e si è eclissato, quasi fosse partito per un lontano paese, dando a ciascuno la forza, la grazia e i doni per poter operare il bene, secondo le diverse possibilità.
I doni che il Signore ci fa sono di natura e di grazia; quelli di natura sono l’ingegno, la forza, la ricchezza, la sanità, ecc.; quelli di grazia sono oltre i doni comuni a tutti nella Chiesa, come per esempio i Sacramenti, anche quelli particolari alle anime privilegiate. Tutti questi doni devono farsi fruttificare, e anche quelli che sono assolutamente gratuiti, come per esempio il dono di profezia, debbono trovare, nell’anima, disposizioni particolari di umiltà, di amore, di purezza e di semplicità, perché il Signore possa espandersi di più. Nel giorno del Giudizio particolare che è quello del rendiconto personale, Dio ci domanderà che cosa abbiamo prodotto con i suoi doni, ed esigerà un accrescimento, diciamo così, del capitale che ci è stato assegnato.
Gesù Cristo si rivolge in modo speciale a quelle anime che credono aver fatto molto, quando non hanno fatto un male positivo, e che misurano le loro benemerenze, paragonandosi con i ladri, con gli impuri e con gli omicidi. Eppure non basta solo non fare il male, ma bisogna anche operare il bene e mettere a traffico le proprie attitudini. Il servo della parabola non fece fruttificare il talento ricevuto, perché, secondo lui, il padrone era molto duro ed esigente; avrebbe dovuto essere l’opposto. La mancanza d’amore al padrone gli fece seppellire ciò che aveva ricevuto. Chi riceve un dono dal Signore può farlo fruttificare solo nell’amore che è la leva più potente di tutte le nostre attività. Lo vediamo nei santi, le cui opere sono state prodigiosamente feconde. Il mondo, spinto solo dall’interesse o dalla vanità sembra più attivo dei santi, e le sue iniziative sembrano riempire la terra; ma sotto il frastuono delle iniziative c’è la sterilità, come mostrano le famose iniziative della carità civile o laica.
Quando ci troveremo innanzi a Dio per essere giudicati nel Giudizio particolare, a chi ha meriti da presentare al Signore sarà data la vita eterna, ma a chi non ne ha, sarà tolto anche ciò che sembra di avere, perché precipiterà nelle tenebre eterne, privo di vita vera, vuoto di tutto, in preda alla disperazione e all’affanno senza conforto alcuno.
La ricchezza deve circolare
Non si può rimanere oziosi nella vita presente e, ciascuno nel proprio stato, deve produrre ciò che può spiritualmente e materialmente. L’attività di tutti concorre al bene comune, e chi ha speciali attitudini per le arti, le scienze, il lavoro, deve dedicarvi le sue forze per amor di Dio. La ricchezza, poi, non è un dono che può tenersi nascosto o inutilmente inoperoso; è anche un dovere farla circolare, adibendola nelle sane iniziative sociali. Chi la tiene accantonata per avarizia o per timore di perderla, ne risponde al Signore come se l’avesse sperperata. A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che sembra di avere; queste parole dell’eterna Sapienza sono un canone anche per le ricchezze temporali; quando si mettono a traffico per il bene comune, fruttificano e producono l’abbondanza a chi le possiede; quando si lasciano inoperose per timore di perderle, si consumano e producono la miseria. Chi le tiene inoperose sembra di averle, perché, in realtà, non possiede che il fastidio di custodirle. Centomila lire, per esempio, se si conservano sempre senza spenderle mai, sono un pezzo di carta stampata; se circolano rappresentano un valore reale.
Dio ci dà tanti particolari doni della sua bontà per darci modo di operare il bene e di zelare la sua gloria; compiamo dunque con fedeltà la nostra giornata di lavoro, aspettando la ricompensa dal Padre celeste. È più utile lasciare la ricchezza di molte opere buone, anziché lasciare un peculio che spesso è dilapidato dagli eredi ed è succhiato dalle tasse. Quello che si ha deve lasciarsi; non è dunque un gran merito disporre quando non se ne ha più il dominio; cediamolo al Signore a poco a poco con le opere sante di sua gloria e con quelle di carità, e pensiamo che la nostra proprietà e la nostra dimora si ridurranno, tutt’al più, ai pochi metri di terra nei quali verremo sepolti.
Don Dolindo Ruotolo, Mt 25,14-30