Commento al Vangelo della XXIV Domenica 2014

Gesù annuncia a Nicodemo il suo regno

Il discorso di Gesù Cristo a noi appare oscuro e arduo, senza una spiegazione, ma per Nicodemo era luminoso, perché la luce del Signore gli penetrava l’anima e la illuminava. Per noi il discorso è come una lampada che ha bisogno di essere accesa per essere scorta nei suoi particolari; per Nicodemo era una lampada fulgentissima.

Avviene in piccolo anche a noi che comprendiamo o intuiamo perfettamente quello che un valoroso declamatore ci dice, e lo intuiamo, diremmo, non tanto per le parole o attraverso i gesti che fa, quanto perché riflette nel gesto e nelle parole quello di cui egli vive intimamente.

L’attore veramente geniale è tale perché, vivendo di ciò che dice, lo riflette fuori di sé, quasi in una proiezione spirituale; l’attore, al contrario che si sforza di parlare e gesticolare macchinalmente, come trova scritto o come gli viene suggerito, non riesce a formare in noi con le sue parole un’immagine viva. Chi percepisce intensamente, per esempio, le movenze di una tigre, e la imita col gesto, la fa quasi vedere perché nel gesto proietta quasi l’immagine che ha nella fantasia.

Questa è una riflessione di grandissima importanza, ed è una meschina analogia che ci fa intendere quale sublime e magnifica luce dovette inondare Nicodemo mentre Gesù gli parlava. Il Redentore non gli proiettava solo nell’anima, per così dire, un’immagine concepita nella fantasia, come può fare un oratore o un attore, ma gli proiettava la luce infinita della sua divinità e la luce soavissima della sua umanità. Per questo non c’è da stupirsi che Nicodemo diventasse fin d’allora suo discepolo, e gli fosse fedele anche nella tragedia del Calvario, curando la sepoltura del suo Corpo divino, perché non fosse profanato dai nemici.

Stavano di fronte Gesù e Nicodemo, e questi, al rimprovero fatto da Lui all’incredulità umana, dovette avere un sentimento di rammarico per la propria diffidenza e, all’accenno di Lui alle cose celesti, dovette sentire un desiderio di conoscerle e scrutarle, perché spirava dal volto di Gesù qualcosa di arcano che faceva intuire l’arcano splendore dei cieli eterni. Nicodemo, al vedere in quel volto divino riflessa la luce celeste, dovette dire fra sé: Che cosa vi sarà nel regno eterno? E chi è colui al quale io parlo? Non gli sembrava in quel momento solo il Messia promesso, ma qualcosa d’immensamente più grande; egli, però, non giungeva ancora a capire che il Messia era Dio stesso, l’eterno Verbo Incarnato, e non intendeva ancora l’economia della redenzione; la sua fede stava ai confini della verità ma non li aveva ancora oltrepassati.

Gesù Cristo lo illuminò solo con un lampo di luce, in modo da gettare in lui il germe della verità senza forzarne la mente; il germe sarebbe, a suo tempo, spuntato. Se gli avesse detto, in quel momento, apertamente: «Io sono il Figlio sostanziale di Dio», Nicodemo si sarebbe smarrito; perciò, rispondendo all’intimo desiderio che aveva avuto di conoscere le cose celesti, soggiunse: Nessuno è salito in cielo e, secondo il testo greco che usa il passato, nessuno è stato in cielo all’infuori di colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che sta nel cielo. Delle cose celesti ed eterne che non si svolgono su questa terra, voleva dirgli, può parlartene solo Colui che è stato nel cielo ab eterno, è disceso dal cielo, facendosi uomo, e sta nel cielo perché non cessa di essere Dio.

Non disse altro Gesù, su questo grande argomento, ma Nicodemo sentì nell’anima sua lo splendore della luce divina, poiché chi gli parlava era proprio il Verbo eterno disceso dal cielo, il Verbo Incarnato per la salvezza di tutti. Questo era il concetto vero che doveva avere del Messia. Il Messia non era un profeta, e tanto meno un principe politico; era, invece, il Verbo di Dio Incarnato, vero Dio e vero uomo, esaltato non su di un trono di gloria, ma su di un patibolo d’immolazione per salvare le anime e dare loro la vita eterna.

Gesù Cristo, per gettare nell’anima di Nicodemo anche il germe di questa verità, gli ricordò il simbolo e la figura più ardua della redenzione, cioè il serpente di bronzo elevato da Mosè nel deserto per ordine di Dio, quando i figli d’Israele furono, per castigo, aggrediti da velenosi serpenti che li mordevano (cf Nm 21,9). Essi, allora, elevavano gli occhi al serpente elevato su una specie di croce e, contemplando solo la figura di Colui che doveva immolarsi per tutti, erano guariti.

Il Verbo Incarnato sarebbe stato elevato non su di un trono, come pensavano allora i dottori della Legge, ma su di un patibolo, ammantato della veste del colpevole, immagine sanguinosa degli uomini peccatori, come il serpente di bronzo era immagine dei serpenti velenosi che mordevano gli Ebrei. Il mondo tutto, bruciato dalle piaghe del peccato, doveva volgere lo sguardo alla Vittima divina, doveva credere, incorporarsi a Lei, operare per Lei il bene, arricchirsi di meriti, e conseguire la vita eterna. Era questa l’economia della redenzione.

Nicodemo, come dottore della Legge, non ignorava certo l’episodio ricordatogli da Gesù, ma per l’interna luce che Egli gli comunicava nell’anima si sentì come in un mondo nuovo, capì il mistero di quella figura profetica, e ne fu sorpreso, ne godette, come gode chi vede risplendere la verità da poche parole semplici, e tacque pieno di ammirazione. Le parole dei profeti riguardanti l’immolazione del Redentore risuonarono nel suo cuore; guardò Gesù con grande compassione, intuendo che voleva immolarsi, e lo amò intensamente perché sentì, in quelle parole che gli aveva detto, tutto l’amore che lo comprendeva. Gesù, infatti, parlando velatamente del suo sacrificio, manifestò, dal volto, una tenerezza infinita che avvolse Nicodemo come in un calore di misericordia e lo conquise. Egli, però, aveva un concetto severo di Dio, non immaginava tanta misericordia in tanta grandezza, non pensava che l’esigenza della sua giustizia potesse armonizzarsi con la sua pietà; perciò Gesù, rispondendo al suo pensiero, soggiunse che la redenzione era frutto dell’infinito amore di Dio, di un amore che era giunto fino a fargli donare il suo Figlio Unigenito, per dare la vita eterna a quanti avrebbero creduto in lui, riconoscendolo, accettandone la dottrina e praticandone i precetti.

Don Dolindo Ruotolo, Gv 3,13-17

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